La "Pista da Canapa" di Prato Sesia
"1656
- adì 23 luglio - Accordio fatto tra la Comunità di Prato mediante
li consoli del consiglio da una parte e suddetto Marco Chiarino abitante in
Quarona dall'altra parte cioè:
Il detto M. Chiarino si obbliga di far doi pezzi di pietra da metter in opera
per pestare la canepa, cioè il fondo di sotto di larghezza oncie trenta
e più ? più che manca e sei oncie intorno e doi altre oncie fondata
con il suo corridore di sopra d'altezza di oncie vinti e di grasezza sei oncie
e mezza senza nessuno defetto puliti e lavorati, e che li debba far andar in
opera ben fatti come (lo sia) giudizio di ogni galantuomo che si intende dell'arte.
Che li consoli di detta comunità si obligano di dargli per sua mercede
lire cinquantacinque cioè lire dodici il ? et il restante subbito sarà
finita l'opera, et che le pietre si debbano dare in Quarona in loco piano acciò
si possino caricar su le barozze".
Fu probabilmente questo
l'ultimo atto d'acquisto della pista da canapa fatto dalla comunità di
Prato e rogato dal notaio Antonio Furogotti.
Le pietre rimasero in quell'edificio situato davanti al mulino ancora per altri
tre secoli, quando l'ultimo molinaro Egidio Galdini decise di disfarsene regalandole
a degli amici. Veniva così simbolicamente a terminare con quello smantellamento
una parte di storia della comunità pratese durata parecchi secoli. Con
essa si chiudeva definitivamente la significativa ed importante epoca della
canapa, anche se in effetti tale coltura era già scomparsa da decenni
nella nostra zona.
Uno studio approfondito su tale coltura nel nostro e nei territori vicini dev'essere
ancora fatto, ad ogni modo si sa che già nel 1640 figuravano oltre sessanta
appezzamenti coltivati con questa pianta, ed una statistica del 1807 riporta
la produzione pratese a 500 rubbi (oltre 40 quintali).
Ma com'era coltivata la canapa?
Si seminava fittamente tra marzo ed aprile per facilitare lo sviluppo di steli
lunghi e sottili che potevano raggiungere e superare i tre metri d'altezza.
Intorno alla festa di San Rocco, a metà agosto, si incominciava a raccogliere
i fusti che tendevano ad ingiallire, badando bene a lasciare ancora in campo
le piante femminili destinate alla produzione di semi. La lavorazione della
canapa incominciava con l'essiccatura e la sfogliatura degli arbusti che poi
raccolti in covoni venivano portati nei maceratoi (buri). Queste buche potevano
essere di varie dimensioni e dovevano contenere acqua semicorrente per permettere
un buon ricambio. Si immergevano i covoni nell'acqua usando delle grosse pietre
per tenerle completamente immerse e così si lasciavano a macerare. Lo
scopo di questa operazione era quello di sciogliere con la macerazione le sostanze
gommose, così da permettere un facile distacco della fibra dal fusto
legnoso. Dopo due o tre settimane si toglievano i covoni dalle buche. Operazione
ingrata e faticosa questa, perché il contadino doveva lavorare in condizioni
disastrose immerso nell'acqua putrida con esalazioni nauseabonde, togliendo
prima i grossi sassi ricoperti di fango. Per quanto riguarda la permanenza dei
covoni immersi nei "buri", non vi era una regola precisa, ma
si sa che dovevano essere costantemente controllati per evitare che incominciassero
a marcire perché "Canapa marcita non fa tela".
Lasciata poi ad asciugare, giungeva il momento della successiva lavorazione
che consisteva nella separazione della fibra grezza dallo stelo. Questa si otteneva
spezzando l'estremità dello stelo dalla parte della radice e scorteggiando
lo stesso, badando bene affinché le fibre rimanessero più lunghe
possibili. A questo punto la canapa era pronta per essere messa nella "pista"
ove subiva una gramolatura tale che permettesse una migliore separazione delle
sostanze legnose ancora presenti. Dopo tale operazione incominciava la lavorazione
della fibra con la cardatura operata con appositi pettini a denti metallici.
Era anche questa una operazione faticosa e fastidiosa per la quantità
di polvere che rilasciava. Si otteneva così la "rista"
che a sua volta veniva filata e lavorata fino a diventare lenzuolo, o capo di
vestiario, o cordame.
Le buche da canapa a Prato erano in prossimità del mulino e della pista,
ma vennero in seguito spostate più lontano del centro abitato perché
l'aria diventava irrespirabile a causa dei "miasmi pestiferi"
che produceva. Il problema però non fu solo limitato alle buche di macerazione,
ma anche al fatto che ogni contadino depositava ovunque potesse i fasci marcescenti
che mandavano fetide esalazioni nell'aria. Se ne vedevano ai bordi delle strette
strade fino a quasi impedire il passaggio dei carri; negli spiazzi delle contrade,
all'interno dei cortili. Fu un problema tanto serio che tutte le comunità
emisero ordinanze in proposito: "E' proibito a chiunque di esporre nelle
contrade, piazze ed altri spazi entro l'abitato di questo comune la canapa tanto
verde che macerata".
Oltre a queste proibizioni vi furono le direttive della Commissione Sanitaria
Provinciale per lo spostamento delle buche. A Prato vennero dapprima spostate
fino ai confini della roggia Mora, e nella zona del Vaglio in luogo che poi
venne chiamato Campaccio. Anche questi luoghi cessarono di esistere a metà
dell''800 quando si progettarono 100 nuove buche nella zona "rogiale".
(Ai confini del fiume Sesia all'altezza della cappella di San Grato). "Il
ridetto prato trovasi come nel tipo che si presenta disposto da notte a mezzodì,
ed ha pendenza non solo su tale senso ma eziandio verso il suo mezzo, e massime
da sera a mattina. Si disse potersi avere l'acqua necessaria per tramandarla
nell'acquedotto aderente a ponente di detto prato, e perciò per questo
facilmente disporla a servizio del macero del canape. Nel progetto si considerò
bene di lasciare lungo il confine verso mattina uno spazio di due metri da servir
per la strada di comunicazione alle diverse buche, ed a tale scopo gli spazi
a notte, nel mezzo, ed a mezzodì della pezza, affine eziandio di avere
l'opportuno risvolto dei carri; non potendosi comunque avere l'accesso a caduna
tampa senza grave perdita di terreno. Quindi aderente a detta strada di mattina
una spalletta di centimetri cinquanta, e tra l'una e l'altra buca metri uno,
e due e mezzo dove si progettò la roggetta, in mezzo altri cinquanta
centimetri.
La roggetta pel lungo, ed altre trasversali alternative serviranno di reciproca
comunicazione e scolo delle acque sia per riempire le buche d'acqua mediante
piccoli tagli ad uso che sarà nelle sponde, che pel corso d'acqua necessaria
pel ripulimento del canape macerato.
Le buche in quadro son di lato metri tre e cinquanta centimetri, altre di due
e cinquanta, ed altre di due metri, tutte lunghe metri tre e cinquanta centimetri".
Per quanto riguarda invece la pista da canapa come si è detto era posta
davanti al "Mulino Nuovo". "Pista da canape
situata sotto un portico con 4 pilastri e coperto da tetto con fundo e burlone
di vivo, e suolo d'aja, e ruota al di sotto per la ruotazione della suddetta
pista.
Ivi in attiguità evvi l'orto al quale unitamente al fabbricato del
mulino fanno coerenza a levante parte della strada tendente a questo mulino
e parte casa del signor Giuseppe Feè a muro comune. A mezzogiorno parte
gerbido comunale, ed a tramontana altro sito comunale ove vi esistevano i maceratoj
del canape ora abbandonati per l'infettazione dell'aria".
In quel tempo vi erano sei servitù di acque: "di rogetta con
5 porte compresa quella ad uso della pista da canape".
Detta pista era composta di un grande sasso circolare scanalato internamente,
dove trovava poi posto la fibra di canapa. Superiormente vi era una ruota anch'essa
in sasso che girando sopra permetteva lo schiacciamento di essa. Il grosso sasso
da macina era bucato al centro in cui trovava posto un lungo palo in legno.
Nella parte superiore era ancorato alla ruota di schiacciamento, mentre nella
parte inferiore - dopo aver trapassato il pavimento su cui poggiava la pista
- terminava con delle pale in legno. Il salto dell'acqua contro tali pale permetteva
di far girare la ruota in tondo schiacciando così la canapa.
La stesura dell'estimo fatto il 13 gennaio 1804 precisava:
Ruota della pista tre crociere, garelli sei, palette ventiquattro estimato
£. 80
Albero ferato con quatro cerchj, e due polici in buon stato £. 45
Bracio con caviglie di ferro, e bussola £. 3:10
Colaro di legno con cerchio di ferro £. 1:5
Telaro della medesima, due travi, due tiranti, e banchella ed una bronzina £.
42
Canale che conduce l'acqua £. 90
Come per il mulino anche per la pista da canapa erano obbligati a servirsi gli
abitanti, per cui era proibito per loro recarsi in altro luogo se il comune
di residenza possedeva la pista: "Saranno tenuti tutti gli abbitanti
del luogo, e territorio di Prato, a dover macinare tutte le loro granaglie in
detto molino, e servirsi della pista del canape ad esso annessa a pena della
compulsione, e affezione dè danni e spese, che ne potrà patire
il fittavolo, e molinaro, e saranno tenuti detti particolari pagare per cadun
rubbo di canapa pesta al detto fittavolo soldi due Imperiali per cadun rubbo
rispetto ai terieri, e rispetto ai forensi soldi tre simili".
Ecco quindi per sommi capi ciò che riguarda la coltura e la pista da
canapa di Prato Sesia. Era un edificio molto comune nei secoli passati e quasi
tutti i paesi ne possedevano almeno una in quell'epoca lontana. Ora non più,
e la caratteristica fondamentale della pista di Prato, è che in questo
luogo è ancora presente l'edificio di quel tempo. E' ancora presente
la stessa roggia molinara, ed anche lo stesso sasso smantellato da Galdini tanti
anni fa, e pronto per essere rimesso al suo posto. Se il tutto era molto comune
nel tempo passato, ora è l'esatto contrario. Pochi luoghi hanno ancora
la possibilità di far rivivere l'epoca e la coltura della canapa con
un recupero così straordinario. Prato Sesia è fra questi.
La "Pista da canapa" di Prato Sesia (edificio in primo piano)
Frammenti di storia del mulino nuovo di Prato Sesia
In epoca feudale i mulini
- oltre a costituire una importante fonte di reddito - erano di esclusiva proprietà
del feudatario del luogo, e solo esso poteva arrogarsi il diritto di costruirlo,
obbligando poi i contadini a macinare e a pagare in quello stesso mulino. Nei
secoli successivi con il graduale superamento del feudalesimo, rimasero ancora
quei vincoli di monopolio sulla macina con severe pene contro coloro che macinavano
altrove, ma con la minor aggravante che perlomeno la rendita era in parte a
vantaggio della stessa comunità.
Elemento necessario e indispensabile per avere il mulino era l'acqua, ed il
fiume Sesia con i suoi affluenti scendenti dalle singole valli, è sempre
stato ben sfruttato per la costruzione dei mulini necessari al fabbisogno delle
comunità. Ancora nei primi anni dell'Ottocento risultano segnalati due
mulini a Sizzano, due a Fara, tre a Ghemme. Almeno due a Carpignano, uno a Grignasco,
quattro ad Ara. E poi ancora: sette a Valduggia, sei a Celio, sette a Borgosesia,
cinque a Quarona, nove a Varallo, e via via salendo nelle valli dove quasi ogni
singolo luogo ne possedeva più d'uno ad uso delle varie frazioni di questi
paesi di montagna.
I mulini tra Romagnano e Prato erano quattro, ed erano tutti ubicati nel raggio
di circa 300 metri. Fino alla seconda metà del '500 erano tutti di proprietà
della comunità di Romagnano anche se due di essi erano sul territorio
di Prato. Era l'epoca del distacco amministrativo tra le due comunità,
e la conseguenza fu che Prato volle avere anche in proprietà almeno un
mulino. Vi fu una lunga guerra tra le due comunità, e Prato si costruì
un proprio mulino verso la regione Isola alla confluenza con il torrente Mologna,
che in seguito fu distrutto.
Molto Illustrissimo ed Eccellentissimo signore
Li poveri uomini
di Prato per loro bisogno ed utilità d'essere melio serviti per il macinar
de soi grani,et pestar dele canepe con più avantagio suo et per esimersi
da la sogietione di quelli di romagnano massime che mentre una donna di prato
faceva pestar canepa in uno delli molini di romagnano contigui à prato
sebbe la moglie d'uno deli regenti di romagnano ardire sotto ? che quelli di
romagnano fossero padroni di detto molino levar di sotto dela resta la canepa
di detta donna di prato et gittarla via et mettere sotto la pesta la canepa
di essa di romagnano deliberarono di far un mollino a beneficio pubblico di
prato, e sotto il parer 'de ingigniero, et che do? Che lo poteano far sopra
de beni de quelli di prato, e, dele acque che decorreno per il loro territorio
et soi beni a beneficio primario de certi particolari de prato, et poi ritorno
in sexsia qual aque se dicono del furone et dela mologna che se uniscono tutte
insieme nel territorio de prato et per li beni de particolari de prato cominciarono
a far il cavo per la rogia de tal molino designato et fattone già per
lungo tratto quelli di romagnano di fatto et a mano armata lo empirono,, et
dimandati in audientia essendo venuto il giorno ? agenti di romagnano fu dimandato
? per poter aver le loro scritture come quelli di prato erano tenuti andar al
molino di romagnano et non poteano far altro molino, massime allegando ancora
che ? del territorio di prato era ? a romagnano, et unico territorio di tutte
due le terre onde a logo di mostrar le scritture fecero di fatto un cavo nelli
beni propri di quelli di prato per divertire come voleano divertire acque designate
per li pratensi per il loro molino in sexia acciò essi di prato non sene
potessero ? , et in ? poi detta laudentia fu ordinato che li pratensi potessero
far il suo molino et che tutto fatto di fatto dovesse esser rimesso in pristino
à spese dè romagnano e fu delegato messer pietro bono, il qual
per diverse et infinite opposizioni et tragiversationi de quelli de romagnano
? interesse dela comunità et forza de particolari quali colludevano insieme
fù tanto impedito che fu astretto star ? per ordini dattogli poi ? da
Eccellentissimo senato per più de doi mesi massime per le insolentie
et novità che se facevano da quelli di romagnano a destinattione da quelli
se fabbricava per li pratensi a spregio ancora deli ? gli erano fatti, et ogni
giorno facendo far processo per traciar detti poveri di prato, et vedendo poi
non haver ragione per la comunità di romagnano di poter impedir detti
pratensi hano fatto saltar il signor abbate et nipoti Trinchero et altri particolari
sotto pretesto che le aque de la mologna siano sue et che habiano avute certe
fonti che dicono decorsi nel furone, et con questi travagliano ancora detti
poveri di prato, et di più avendo avuto ordine dal senato eccellentissimo
quelli di prato di far esse qui quanto era stato ordinato et fatto dal detto
delegato bono et così avendo cominciato essi poveri far lavorar detto
suo molino solo per due o tre giorni in tempo e ? poteano ? de altri molini
per le inondazioni di sexia che havea sotto le chiuse, in un tratto una unione
di gente romagnanesca armata andò a destivere l'argine de la rogia per
cavargli come fu cavata laqua, et furono da tal unione impiti li camini dele
mole di sassi et rotti in parte dele palette dele mole et scoperto il tetto
in parte di modo che restano detti poveri di prato in tutti li modi oppressi
et oltregiati come anche si crede che v.e. nel passar suo per questo loco sii
andata per ? ? ? per cognizione dela verità de tali opressioni et violentie
in giustissime fatte da detti di romagnano haverà potuto veder, onde
vedendo essi poveri di prato essersi fatti talmente esausti ne poter più
contendere con detti di romagnano troppo potenti, et che fidano solo ne la loropotentia
et favori grandissimi per li quali non hano temuto ne temeno la giustizia, anci
pensano sia morta per la peste e per la grande insolentia che se hano fatto
nelle persone de particolari de prato ferendoli, bastonandoli, guastandole le
bestie amazandoli il curato, e tutta via minaciono di far; vociferando ancora
del molino non macinar se non macina di sangue de pratensi come si è
? et si deve temer per esser loro romagnanensi pronti di mani et feri.
Ricorrino da v.e. sia finita per pietà et giustizia et inserendo al suddetto
ordine dal senato eccellentissimo che ? del mollino et rogia sono fatti, et
le aque giustamente se sono potute et se possono destinar per detta rogia ad
uso de detto molino perché prima andavano ad uso deli particolari de
prato et poi nella sexia senza danni ad alcuni de romagnano et se cassano le
aque dela mologna secondo che erano solite andar a li prati de li particolari
di romagnano come loro pretendano come v.e. haverà potuto vedere per
li canali fatti per ordine del sudetto delegato bono, à far che non gli
è fatto ad essi di romagnano danno alcuno et et li detti poveri pratensi
si sono soltanto esausti, ne possono resistere alla potentia di romagnano et
se non sono aiutati dala giustizia et misericordia di v.e. come quella che ha
potuto per il logo comprendere le suddette opressioni, resteranno rovinati nella
robba et persone ? che detti poveri pratensi possano liberamente usar dette
aque et molino suo senza altro impedimento de li detti di romagnano conforme
a quanto, è stato per il suddetto bono delegato ordinato per tre de sue
delegazioni
Continuarono le diatribe ed i pestaggi in cui rimase morto anche un sacerdote pratese, ma alla fine, grazie alla mediazione del presidente del Senato di Milano, si giunse ad un accordo il 30 dicembre 1576:
Che li Huomini di Romagnano siano tenuti dar alli Huomini di Prato uno
delli duoi Molini, quali hanno essi di Romagnano in Prato ad eletione di detti
di Prato. Il qual Molino qual sarà eletto per detti di Prato resti, &
habbi da esser proprio, & libero di detti Huomini di Prato, quale siano
poi padroni di tal Molino, & della sua roggia, & acque con le medeme
ragioni, & ationi, quali hanno detti di Romagnano sopra detto Molino, qual
sarà eletto, & tolto per detti di Prato, come sopra, & sua roggia,
& acque.
Il mulino passò così alla comunità pratese con un costo
di canone annuo di 200 lire Imperiali. Per contro la comunità di Romagnano
dovette pagare la somma di £. 4.500 Imperiali alla comunità avversaria
quale risarcimento del nuovo mulino che i pratesi avevano costruito. L'accordo
prevedeva però che fosse distrutto: in modo che si habbia a estinguere,
che non sia più Molino, che possi macinare in alcuno modo, né
si conduca più acqua alcuna per il cavo di tal Molino novo.
Non si risolse così facilmente la questione con Romagnano specialmente
per quanto riguardava la servitù d'acqua, e già al 30 di gennaio
dell'anno successivo gli Huomini di Prato chiedevano di nuovo aiuto al
presidente milanese inviandogli tra l'altro un dono non meglio precisato nella
lettera. Oltre a questo si lamentavano delle grandi spese che dovevano sostenere
per il ripristino efficiente del mulino inviando una estimazione di queste ultime.
Rode tre da molino scuti setti d'oro
Arbori tre con soi ferramentj scuti otto
Camini tre scuti sej
La supanda con le porte scuti quattro
N° 60 asse di rogore scuti deci
Passoni di boscho piantati cercole troghe n° 36 scuti tre e mezzo
Passoni grossi n° 8 scuti doj e mezzo
Cagne sei che teneno li passoni scuti doj e mezzo
Legnami e banche che sosteneno le mole n° 4 scuti tre
Li pestoni con la pila scuti settj
Prede da mola n° 4 scuti quaranta doj
Polchi n° 6 scuti tre
Pali di ferro n° 2 scuti uno
Cologne n° 8 scuti sej
Scuti da molino n° 2 scuti quattro
Asnoni di legno n° 5 scuti tre
Sono in suma scuti n° centododeci e mezzo
Il problema dell'acqua si risolse temporaneamente con un accordo il 30 marzo
1577, anche se le vertenze continuarono per molti anni a seguire, coinvolgendo
prima la Regia Camera milanese, ed in seguito i proprietari della roggia Mora.
Vertenze che si chiusero con una convenzione nel 1707. Ancora nel 1768 i pratesi
intentarono causa a Romagnano accusandoli di deviare l'acqua a loro favore e
chiedendogli i danni, ma persero la causa in quanto il problema doveva semmai
coinvolgere i compadroni della roggia Mora.
Il mulino di Prato chiamato "Molino Novo" perché
era l'ultimo costruito dei quattro presenti, era a tre ruote ed aveva davanti
la sua "Pista da Canape". Consisteva questo in un sito
sottotetto in cui vi esistono le tre macine per meliga e segale con suoi ordigni
di ruote in opera in mediocre stato. Cucina attigua verso mezzogiorno con stanza
superiore sottotetto intavellato. Stallino con camerino superiore, ed un porcile.
Cavo del molino verso ponente con tre ruote laminazzi e porte in mediocre
stato e pista da canape al di la situata sotto un portico con 4 pilastri e coperto
da tetto con fundo e burlone di vivo, e suolo d'aja, e ruota al di sotto per
la ruotazione della suddetta pista.
Ivi in attiguità evvi l'orto suddetto al quale unitamente al fabbricato
del molino fanno coerenza a levante parte della strada tendente a questo molino
e parte casa del signor Giuseppe Feè a muro comune.
A mezzogiorno parte gerbido comunale e parte la casa suddetta del signor Feè,
a ponente lo stesso gerbido comunale ed a tramontana altro sito comunale ove
vi esistevano i maceratoi del canape ora abbandonati per l'infettazione dell'aria.
Ed in parte casa del signor Radaelli a muro comune.
Le acque serventi alla ruotazione del predetto molino si estraggono dalla roggia
Mora mediante chiusa sulla medesima, sul di cui cavo di estrazione vi attraversa
il riale Roccia mantenendosi dallo sbocco del medesimo altra chiusa per sostenerne
le acque.
Il fabbricato era costruito intieramente con sassi a piena vista. L'inventario
del mulino precisava che c'erano 6 servitù di acque di rogetta con 5
porte compresa quella ad uso della pista da canape, con due banchette laterali
e due ponti per il comodo passaggio con essersi anni tre orsono (l'inventario
è del 13 gennaio 1804) apposte due colonne nuove, tre stive nuove, e
due riformate.
Proprio a riguardo delle derivazioni d'acqua, i "cavi" o canali
provenienti dalla Mora erano regolati da quattro "chiuse" di
cui due formate da sassi fluviabili che si raccolgono dal letto della Mora,
e costruite da travi incrociabili per l'altezza di brazza nove. Le due superiori
sono formate da sassi fluviabili adattati a guisa di caretto ed elevate brazza
due circa.
All'interno del mulino si trovava tutta l'attrezzatura con i nomi tecnici che
venivano dati a quel tempo: la cassa tonda di pioppa, il coridone, il rovatto
ossia crocino, lo strentore di pioppa, la corbaccia di pioppa, navelle e navigiole,
le tre mole con il loro letto in legname, le pedagne ossia asinotti, le marne
ossia casse per la farina.
L'inventario era fatto ogni volta che subentrava un nuovo affittuario ed ogni
volta che tale affittuario cessava l'attività. L'affitto era concesso
di tre anni in tre anni durante una seduta d'appalto in cui tutti potevano partecipare.
La somma variava secondo l'interesse dei contraenti e a seconda dei momenti,
ma si aggirava intorno alle 800/900 lire annue durante i primi anni dell'Ottocento,
pagabili ad ogni scadenza trimestrale. Inoltre colui che s'aggiudicava l'appalto
era tenuto all'osservanza di alcuni "capitoli". Si ricorda in proposito
che ogni comunità predisponeva dei "capitoli" che potevano
essere diversi rispetto ad un'altra, ma che sostanzialmente non vi erano grosse
differenze. Alcuni dei capitoli relativi al "Mulino Nuovo"
di Prato del 12 gennaio 1621 erano i seguenti:
Che detto Michele sia tenuto et obligato sì come promette e s'obliga
di tener su il coridone della roggia di detto molino per qual causa ce nà.
Item che debbia attendere al molino a far macinar il grano, et che tenga un
bon famiglio grande per uso del molino, acciò possa portar li sacchi
per carrigar le bestie in ogni loco sotto la pena di scudi doi per ogni volta
contravverrà.
Item che debba tener una cavalla per uso del molino oltre li asini.
Item che detto molinaro debba star nel molino al quaterno del grano bianco,
et al terzo del grano nero, et della pena il terzo.
Item che detto molinaro habbia da misurare il grano rotto in terra, et non sopra
la mola et che tenga una coperta di tela di larghezza di brazza quattro per
metterci sopra la corbella in terra per misurare con il coppo sotto la pena
di scudi doi per ogni volta che misurerà sopra, et che si stia alla fede
di chi macinerà o de altra persona.
Item che detto molinaro sia tenuto e debba macinar a quelli della terra e cassine
di Prato in termine de giorni tre doppo s'avrà avvisato sotto la pena
de scudi doi da dar a quello patirà il danno.
Item che detto molinaro non possa ne per se ne per altri tagliare o far tagliar
alcuna sorte di legna ne grossa ne piccola apresso il stortone, et roggia del
molino, et che non li possa tagliare salvo che la bubba per uso del stortone,
sotto la pena di scudi quattro oltre il danno.
Item che detto molinaro non possa tener nessuna sorte di galline, capponi, poletti,
anche oche, ne altre cose di simili animali, eccetto per uso suo senza licenza
delli homini del consiglio sotto la pena di scudi quattro da pagarsi alla comunità.
Item che ogni volta che il molinaro leverà la mola per marterarla, che
quando la sarà a basso per marterar, che detto molinaro debba buttar
una mina di bon grano del suo in mola sotto la pena de scudi doi da pagarsi
alla comunità ogni volta contravverrà, et si debba stare alla
fede di ognuno con giuramento, et quello lo accuserà guadagni il terzo.
Norme come si può notare, a tutela della povera gente obbligata a macinare
nel luogo, e a tutela del bene della preziosa struttura comunitaria. Interessante
l'ultima norma relativa alla revisione della mola, in cui il molinaro era obbligato
a ricominciare la macinatura mettendo una mina di buon grano (litri 15,8 - misura
di Novara) del suo, per evitare che i primi clienti fossero defraudati da una
certa quantità di prodotto che inevitabilmente rimaneva incastrato tra
le mole revisionate.Con il passare del tempo cambiarono anche quelle norme,
ma sostanzialmente i principi fondamentali rimasero. Nel 1800 ad esempio:
Che il fittavolo non
possa servirsi d'altra misura e corba, che di quelle che saranno consegnate
dagli amministratori.
Che il fittavolo o molinaro non potranno prendere per la macinatura se non un
coppo (litri 0,988 - misura di Novara) di grano per ogni diecisette, pagandosi
nel sacco, e non nelle corbe, quando queste non siano della misura di detti
coppo diecisette.
Che il fittavolo o molinaro non possano tenere nel molino che un animale porcino,
n° 6 galline e un gallo.
Saranno tenuti tutti gli abitanti del luogo a dover macinare tutte le loro granaglie
in detto molino e servirsi della pista da canape ad esso annessa.
Nel 1813, di fronte alla sempre più grave crisi economica e per far
fronte agli eccessivi debiti comunali, furono date disposizioni per la vendita
dei beni comunali, ed i rimasti tre mulini di Prato e Romagnano saranno venduti
il 12 febbraio 1814 a Luigi Bogani e Odoardo Donzelli per la somma di lire italiane
31.147. Da quel momento furono esclusivamente in mani private.
Contributo alla conoscenza della storia dei mulini nella bassa Valsesia
Nei secoli trascorsi la
vita economica delle comunità ruotava quasi esclusivamente intorno alla
produzione agricola capace di procurare, per quanto era possibile, una minima
rendita. Poche in sostanza erano le altre attività "generatrici
di benessere" che potevano produrre un reddito diverso dallo sfruttamento
del suolo.
Il commercio ridotto ai minimi termini, si limitava alle poche persone che con
il loro carro si portavano nei luoghi ove settimanalmente si svolgeva il mercato.
L'industria, quasi inesistente fino alla seconda metà del Settecento
era limitata al poco sfruttamento dei bachi da seta, della lana e della concia
delle pelli di animali, con qualche fonderia nella zona di Valduggia, e qualche
piccola miniera nell'alta Valsesia. Nei piccoli borghi, oltre alla attività
agricola finalizzata all'autoconsumo la produzione consentiva, in alcune buone
annate, quel surplus economico con la vendita di cereali e vino che veniva esportato
in zone sprovviste di tali colture, così da permettere la sopravvivenza
dei villici quando il territorio rimaneva colpito da sciagure meteorologiche,
da invasioni guerresche, o da calamità sanitarie.
Oltre a queste poche, non rimanevano altre particolari attività all'interno
di una comunità, se si eccettuano le altrettanto poche professioni liberali
del medico o del notaio; oppure quelle un po' più "proletarie"
del falegname, dello scalpellino, o del muratore. Tuttavia esistevano anche
delle professioni che seppur legate al mondo agricolo erano considerate di una
grande importanza in quel mondo rurale perché anch'esse, e forse più
di altre - oltre ad essere vitali per quel mondo - erano generatrici di reddito
per tutta la comunità nel suo insieme, ed erano le professioni del fornaio
e del mugnaio. Infatti sia i forni che i mulini erano assoggettati a vincoli
e leggi estremamente restrittive dalle quali la comunità ricavava una
buona fonte di reddito, e che in altrettanta buona parte veniva stornata allo
stesso fisco.
In epoca feudale i mulini - oltre a costituire una grande fonte di reddito -
erano di esclusiva proprietà del feudatario del luogo, e solo esso poteva
arrogarsi il diritto di costruirlo, obbligando poi i contadini a macinare e
a pagare in quello stesso mulino. Nei secoli successivi con il graduale superamento
del feudalesimo, rimasero ancora quei vincoli di monopolio sulla macina con
severe pene contro coloro che macinavano altrove, ma con la minor aggravante
che perlomeno l'eventuale rendita era in parte a vantaggio della stessa comunità.
Elemento necessario e indispensabile per avere il mulino era l'acqua, ed il
fiume Sesia con i suoi affluenti scendenti dalle singole valli, è sempre
stato ben sfruttato per la costruzione dei mulini necessari al fabbisogno delle
comunità. Ancora nei primi anni dell'Ottocento risultano segnalati 2
mulini a Sizzano, 2 a Fara, 3 a Ghemme. Almeno due a Carpignano, 1 a Grignasco,
4 ad Ara. E poi ancora: 7 a Valduggia, 6 a Cellio, 7 a Borgosesia, 5 a Quarona,
9 a Varallo, e via via salendo nelle valli dove quasi ogni singolo luogo ne
possedeva più di uno ad uso delle varie frazioni di questi paesi di montagna.
I mulini tra Romagnano e Prato erano 4, ed erano tutti ubicati nel raggio di
circa 300 metri. Fino alla seconda metà del '500 risultavano tutti di
proprietà della comunità di Romagnano anche se due di essi erano
sul territorio di Prato Sesia. Dal 1576 dopo una lunga vertenza la comunità
di Prato riuscì ad avere in proprietà un proprio mulino, mentre
a Romagnano rimasero gli altri tre.
Il mulino di Prato chiamato "Mulino Nuovo", ancora oggi
esistente, era a tre ruote ed aveva davanti la sua "pista da canape".
Consisteva questo in un sito sottotetto in cui vi esistono le tre macine
per meliga e segale con suoi ordigni di ruote in opera in mediocre stato. Cucina
attigua verso mezzogiorno con stanza superiore sottotetto intavellato. Stallino
con camerino superiore, ed un porcile.
Cavo del molino verso ponente con tre ruote laminazzi e porte in mediocre
stato e pista da canape al di la situata sotto un portico con 4 pilastri e coperto
da tetto con fundo e burlone di vivo, e suolo d'aja, e ruota al di sotto
per la ruotazione della suddetta pista.
Ivi in attiguità evvi l'orto suddetto al quale unitamente al fabricato
del mulino fanno coerenza a levante parte della strada tendente a questo mulino
e parte casa del signor Giuseppe Feè a muro comune.
A mezzogiorno parte gerbido comunale e parte la casa suddetta del signor Feè,
a ponente lo stesso gerbido comunale ed a tramontana altro sito comunale ove
vi esistevano i maceratoi del canape ora abbandonati per l'infettazione dell'aria.
Ed in parte casa del signor Radaelli a muro comune.
Le acque servienti alla ruotazione del predetto molino si estraggono dalla roggia
Mora mediante chiusa sulla medesima, sul di cui cavo di estrazione vi attraversa
il riale Roccia mantenendosi dallo sbocco del medesimo altra chiusa per sostenerne
le acque.
L'inventario del mulino precisava inoltre che vi erano 6 servitù di acque
che dalla roggia molinara permettevano al mulino di funzionare, compresa quella
che serviva al funzionamento della pista da canapa.
Qualche metro più avanti dal "mulino nuovo",
e dalla parte opposta della strada circonvallazione di Prato, vi era il mulino
chiamato "di Cavallirio". Anch'esso sul territorio di Prato
ma di proprietà della comunità romagnanese. Era definito con quel
nome perché riservato agli abitanti di Cavallirio sprovvisti di un proprio
mulino. Venne quasi completamente distrutto durante l'alluvione del 1755. Ricostruito
in parte, funzionò ancora per una cinquantina d'anni poi venne abbandonato
anche perché ad ogni escrescenza d'acqua ne veniva invaso.
Ad un centinaio di metri da quello, vi era il terzo mulino ed era chiamato il
"mulino del sasso". In corrispondenza con la rocca terminale del
"motto del sasso", questo mulino era a tre macine
da grano (in precedenza era a quattro ruote) e meliga cò suoi
ordigni necessarj e rodiggi esterni corrispondenti a fughe, cucina attigua e
due stalle in volto con due stanze superiori a quelle. Anche in vicinanza
di quel mulino vi era la pista da canapa. Per una migliore comprensione di dov'era
situato si può dire che venendo da Romagnano verso Prato, era in corrispondenza
dell'ultimo edificio dell'attuale filatura "Botto" che a quel
tempo ovviamente non esisteva. Non era però all'attuale piano stradale,
ma in basso sul piano della roggia Mora.
Il quarto mulino era poco distante da questo e più o meno in corrispondenza
dell'entrata dello stabilimento Botto, ed all'interno di essa per un centinaio
di metri. Era chiamato il mulino di ceriolio o della ressiga. Era a due
macine (in precedenza era a tre ruote) con tutti i suoi ordegni necessarj,
e corrispondenti ruote esterne, cucina attigua e stanza successiva con due camere
superiori, l'una sottotetto, ed altra con soffitto, ed uno stallino. Si
ricorda infine che a quel tempo davanti a tutto l'attuale edificio della "Botto"
vi era la roggia molinara di scarico del mulino del "sasso",
che poi si immetteva nella roggia Mora nei pressi dell'attuale incrocio semaforico.
I fruitori romagnanesi per portarsi nel mulino della ressiga dovevano necessariamente
attraversare quello stesso ponte situato all'incrocio semaforico, e a quel tempo
chiamato "il pontone". Quel grosso ponte in legno, oltre a
dare l'accesso alla strada del mulino, portava i contadini ai loro fondi in
tutta quella zona limitrofa che ancora oggi è chiamata dei ceriagli.
Ma vediamo a titolo di esempio com'erano regolate le norme per coloro che affittavano
i mulini, ricordando che una comunità poteva avere dei capitoli diversi
rispetto ad un'altra, ma che sostanzialmente non vi erano grosse diversità.
In questo caso i capitoli di affitto erano relativi al "mulino nuovo"
di Prato con la data 12 gennaio 1621.
Che detto Michele (Arienta) sia tenuto et obligato sì come promette
e s'obliga di tener su il coridone della roggia di detto molino per qual causa
ce nà.
Item che debbia attendere al molino a far macinare il grano, et che tenga un
bon famiglio grande per uso del molino, acciò possa portar li sacchi
per carrigar le bestie in ogni loco sotto la pena di scudi doi per ogni volta
contravverrà.
Item che debba tener una cavalla per uso del molino oltre li asini.
Item che detto molinaro debba star nel molino al quaterno del grano bianco,et
al terzo del grano nero, et della pena il terzo.
Item che detto molinaro habbia da misurare il grano rotto in terra, et non sopra
la mola et che tenga una coperta di tela di larghezza di brazza quattro per
metterci sopra la corbella in terra per misurare con il coppo sotto la pena
di scudi doi per ogni volta che misurerà sopra, et che si stia alla fede
di chi macinerà o de altra persona.
Item che detto molinaro sia tenuto e debba macinar a quelli della terra le cassine
di Prato in termine de giorni tre doppo s'avrà avvisato sotto la pena
de scudi doi da dar a quello patirà il danno.
Item che detto molinaro non possa ne per se ne per altri tagliare o far tagliar
alcuna sorte di legna ne grossa ne piccola apresso il stortone, et roggia del
molino, et suo territorio sotto la pena de scudi quattro oltre il danno ogni
volta che contravverrà.
Item che detto molinaro debba piantar cinquanta piedi di pubbie intorno al boscho
del molino, et che non li possa tagliare salvo che la buppa (o bugga) per uso
del stortone sotto la pena di scudi quattro oltre il danno
Item che detto molinaro non possa tener nessuna sorte di galline, capponi, poletti,
anche oche, ne altre cose di simili animali, eccetto per uso suo senza licenza
delli homini del consiglio sotto la pena di scudi quattro da pagarsi alla comunità.
Item che ogni volta che il molinaro leverà la mola per marterarla, che
quando la sarà a basso per marterar, che detto molinaro debba buttar
una mina di bon grano del suo in mola sotto la pena de scudi doi da pagarsi
alla comunità ogni volta contravverrà, et si debba stare alla
fede di ognuno con giuramento, et quello lo accuserà guadagni il terzo.
Un ulteriore contributo alla conoscenza di questi mulini può venire da questa relazione stilata appositamente nell'anno 1562 al fine di determinare la tassa annuale che la comunità di Romagnano doveva pagare al fisco per mantenere il funzionamento dei suoi quattro mulini. Da questa relazione si può capire quale fosse l'ubicazione in quel tempo delle "chiuse" che permettevano le diramazioni delle acque del Sesia e della Mora per l'alimentazione dei mulini posti in questo territorio.
Relazione del Refferendaro di Novara della visita da esso fatta della chiusa, e molini di Romagnano, affine di fissare l'annata, che la Comunità di detto luogo doveva pagare alla Regia Camera.
Ill.mi signori mey osservazioni
In executione de lettere
de V.S. Ill. de 22 di novembre passato ha mandato a visitare quatro molini della
comunità di Romagnano quali sono poste sopra due rogie tutte due vicine
alla terra di Prato, et si è trovato che dette due rogie si partiscono
poco più di sopra da detti molini e vengano fora per tutte due da una
sol roggia con la qual si è visto che per la verità si cava dal
fiume di Sesia in un loco qual è sotto la costa de S. Lorenzo da una
banda, e dalaltra banda glie il fiume de Prato, al qual locho si è vista
e visitata la chiusa qual si fa a traverso alla detta Sesia per far venire fora
la detta roggia per detti quatro molini, qual chiusa si è vista longa
un bon tiro de archiabuso, et a farla sì per quella Sesia visto quanto
per le informazioni tolte in scritto da persone trovate in sul locho così
a caso costano cento scudi, o, circa. Oltra che scudi la detta chiusa sopra
la Sesia la qual Sesia spesse volte e ogni anno tre o quatro volte secondo che
la piena bisogna reparare e rimediare dove li va spesa anchora, però
andando la detta rogia a detti molini quando si trova a uno locho nominato il
stortone si trova una altra chiusa alla quale va grandissima spesa per tenir
laqua nel letto di detta rogia e, poi un altro locho nominato il prato de madona
Isabella Torniela e, cui si è visto un'altra gran chiusa, e cui se parte
laqua in due bande qual fa macinare duoi molini per parte e trovato in paese
delli molinari quali sono a detti molini, quali interrogati hanno resposto,
che la spesa che va a far quelle chiuse e tanto granda che non si potria estimare
assicurando che dala spesa al guadagno non ci sia molta differenza anci che
quando viene piovera grande, che la spesa è magior e che loro non pigliariano
a matenere dette chiuse per il guadagno de detti molini, tanto più in
che la magior parte del grano che si macina e meliga, e queste cose l'hanno
anchora provato per tre testimonj quali sono da Romagnano ma che sono informati
di questi negozi, quali hanno deposto andarli tanta spesa intorno a dette chiuse
che è cosa grande, e, che la chiusa magiore se ricordano averla vista
a far due volte l'anno cioè quando la Sesia se ingrossa, e scarpa qui
ogni cosa e che quando, a, loro nà pigliariano a fare, e, mantenere dette
chiuse per il guadagno che si fa de detti molini massime adesso chel grano val
pocho, e quando il grano val anchora qualche cosa di più di adesso che
parimente non ghè guadagno. Et deponeno di più che loro non pigliariano
tal caricho perché sempre gliè de fare qualche cosa intorno a
dette chiuse anzi che qualche volta quando la Sesia scarpa la chiusa se sta
vinti, e trenta giorni qualche volta prima che si possa acconzare perché
con difficoltà grandissima se li provede per laqua tanto granda e bisogna
che li particolari vadino a macinar al Borgo di Sesia discosto da Romagnano
cinque miglia, e, a Ghemi et a Fontaneto hanno deposto anchora che qualche volta
quando la Sesia scarpa la detta chiusa che molte volte la Comunità sta
in opinione di nò tornarla a far fare più, ma che per non lassar
patir li abitanti et massime li poveri in detta terra che sariano sforzati andare
a macinare tanto lontano quali vengano a cridare e dolersi che la fanno acconzar
poi per potere macinare e che fanno tal spesa per macinare et non per utile,
et per dimostrare detti de Romagnano che la spesa è magiore che nò,
e, la cavata hanno fatto mostrare et vedere la chiusa sui appresso Romagnano
dala quale deriva l'aqua della Mora quali mantengono li signori Schiner da Villanova
e la Illustrissima signora Violanta Sforza entrata per li beni della Riotta
il locho della Camera per quale chiusa dicono che a mantenerla si paga Imperiali
750 l'anno et per il vero questa chiusa della Mora non è longha un pezo
apresso a quella longa delle moline et a quella della rogia nominata stortono
et altre chiuse nominate come di sopra in modo che concludo che quando sia al
utile che cava detta Comunità di Romagnano rispetto alla spesa che si
fa circa dette chiuse e como di sopra per la visita e informazioni tolte e ragioni
come di sopra non li vedo utilità che dil tutto mi è parso darne
aviso a V.S.Ill. allegnati bacio le mani et me ricomando.
In Novara il Xmj marzo 1562
Sulla base della relazione venne poi deciso dal Regio fisco quale fosse la tassa di pagamento che risultò la seguente.
E' comparso da noi l'Agente
della Comunità de Romagnano domandandone provisione circa al pagamento
dell'Annata, de suoi molini atteso le grandi spesse che fanno di mantenere l'aque
alli detti molini, et avendo anchora visto la vostra di Xmy di marzo proximo
passato donde ne datte rellazione della grande spese che si fanno circa al mantener
le aque a detti molini per il che havendo tanto consideratione al tutto et se
partecipata con il Regio ducale fisco vi dicemmo et commettemo che pagando libre
cento quaranta Imperiali nò li diate più molestia per conto dell'Annata
et in ciò non mancareti.
Nono may 1562
Quando per sposarsi si andava dal notaio – Note sul matrimonio nei secoli passati
Era sabato 26 settembre 1620 quando su ordine
del vicario generale della Diocesi di Novara si svolse un particolare interrogatorio
nell’abitazione del curato di Romagnano. Poco tempo prima due giovani
di quel luogo: Giovanni Battista Longho e Domenica Lenta erano stati sorpresi
in profondo atteggiamento amoroso, e circolando la voce ne era nato un forte
scandalo determinato anche da fatto che i due giovani erano imparentati al 4°
grado di consanguineità. S’imponeva così un matrimonio “riparatore”
che avrebbe impedito oltretutto a Domenica di rimanere “diffamata”
per tutta la sua esistenza. I due giovani fecero istanza per ottenere la dispensa
papale e vennero assolti dall’”incesto” commesso da una Bolla
Apostolica ammesso però che fosse provata la loro parentela di 4°
grado e non più vicina; che fosse provato “che se non seguisse
matrimonio la detta Domenica restarebbe infamata né più troverebbe
maritarsi, et verisimilmente ne nascerebbero scandali importanti”. Ed
infine che la ragazza non fosse stata rapita con conseguente violenza carnale.
Fu così che quel giorno vennero convocate due persone del luogo - Giovanni
Battista Renolfi e Ambrogio Bazzoni – per conoscere le loro opinioni su
quel fatto, ed entrambi furono concordi nell’affermare che la loro parentela
non andava oltre al 4° grado spiegando dettagliatamente l’albero genealogico
dei due giovani. Anche per le altre questioni i testimoni furono concordi nell’affermare
che fosse “bene che il detto G.B. Longho pigli la detta Domenica per sua
moglie che così si leveranno gli scandali, e la detta Domenica recupererà
l’honor suo, e so che se detto G.Battista non sposasse la detta Domenica
ne nascerebbero scandali importanti”.
Identica considerazione fecero per l’ultima questione, e cioè se
fosse stato un caso di violenza carnale, e le risposte furono precise. Il Renolfi
affermò “che hanno avuto coppula insieme amicabilmente, et che
erano promessi, insieme di sposarsi, credendosi che non vi fosse impedimento
alcuno”. Ambrogio Bazzoni sostenne che non aveva “mai inteso che
habbia violata per forza la detta Domenica ma ho ben sentito dire che l’hanno
fatto per mera fragilità et per amore et con animo di sposarsi insieme”.
Tutto si svolse quindi nel migliore dei modi per i due giovani anche se dovettero
sopportare altre conseguenze causate da quella loro leggerezza sentimentale
svolta prima del legittimo matrimonio. Infatti la lettera del vicario novarese
indirizzata al parroco locale prescriveva la “penitenza pubblica di stare
un giorno di festa mentre si dice la messa parochiale sopra la porta della loro
chiesa parochiale ciascuno con una candela accesa in mano ordinando al curato
che avisi il popolo della causa di tal penitenza acciò li altri da ciò
impauriti s’astengano da simili eccessi. Dopo farà che essi contrahenti
finchè sarà ordinato altro da noi siano separati l’un dall’altro
anco d’habitatione et fare precetto a tutti doj, che così osservino
finchè sij seguito il matrimonio sotto pena di cinquanta scudi d’applicarsi
a luoghi pij, et della scomunica in sossidio di raggione, et anco della privazione
della grazia fattagli da N.S.”. Ed infine “darà il giuramento
a ciascuno di loro, che non habbino comesso tal incesto per ottenere più
facilmente la dispensa della Santa Sede Apostolica facendo del tutto fare atti
publici dal suo notaro, quali ci manderà autentici et sue fedi che detti
contrahenti vivano separatamente et della penitenza publica sopradetta”.
Fin qui la vicenda di due giovani che a quanto par di comprendere sembrano aver
fatto la scelta matrimoniale in modo totalmente indipendente. Non era così
invece per la quasi totalità dei giovani dove il loro matrimonio era
prevalentemente combinato e deciso dalle famiglie dove si intrecciavano anche
piccoli interessi legati alla proprietà.
Un secondo caso abbastanza singolare si svolse il 15 febbraio 1734 dove un giovane
di Biandrate grazie all’intervento di alcuni amici entrò in contatto
con Margherita Sesone Bonola di Prato. Decisero di sposarsi e venne stipulato
il classico contratto di matrimonio con annesso elenco della scherpa che la
giovane avrebbe portato come dote. Normalmente si trattava di poche cose personali
che riposte in una semplice cassa di pubia, seguivano la sposa nel suo trasferimento
alla casa del futuro sposo. Poche cose che aiutano a comprendere l’estrema
povertà di un epoca lontana; ma la caratteristica del caso è che
l’atto notarile presenta anche alcune condizioni normalmente non presenti
in altri atti.
“per l’amore grande che porta detto futuro sposo Castello verso
la detta Margaritta che a titolo di donatione, o sij contradote ha fatto donatione
et fa alla detta sposa qui presente il letto futuro matrimoniale, et anche in
caso che, Dio non voglij premorisse detto Castello prima della sudetta Sesona
Bonola ha instituita, et instituisce la medesima padrona di godere et abitare
una casa superiore et altra inferiore” a patto però che tal Margherita
debba continuare a vivere “vedova, è casta è non altrimenti
di modo tale che niuno possi scaciare la medesima dal comodo di detta casa”.
In questo caso appunto lo sposo “regalava” due camere alla sposa
in caso di vedovanza a patto però che lei rimanesse “vedova e casta”.
Cose un po’ difficili da provare per lui ormai defunto. Inoltre si può
notare anche l’assoluta mancanza di tatto nella dichiarazione che “Dio
non voglij” che sia lui a soccombere prima della futura sposa, ma quelli
erano i tempi.
Un altro caso abbastanza particolare risulta essere il patto stipulato da Sillano
de Ragno e sua moglie Alegra de Bocca con Giovanni Battista de Massoto entrambi
di Romagnano. La convenzione venne stilata lunedì 3 gennaio 1589 nello
studio dello stesso notaio Colombo.
Primo convenerunt che detto Sillano et Alegra marito, et moglie debbano dare
come sin’hora danno per moglie al detto Giovanni Battista, presente et
accettante Gaspina sua figlia.
Item convenerunt che detto Giovanni Battista pigliato ch’havrà
la detta Gaspina per moglie, sia obligato stare et habitare con detti Sillano
et Alegra, at uno pane et vino come si suol fare tra padre madre et figliolo
sino alla morte de detto Sillano et Alegra.
Item convenerunt che detti Sillano et Alegra marito et moglie come sopra debbano
dare come sin hora danno al detto Giovanni Battista seguendo expresso il detto
matrimonio in dotta et per dotta di detta Gaspina loro figliola come sopra tutti
li soi beni mobili immobili et le monete siano dove si vogliono presenti et
da venire in modo che detta Gaspina doppo morte di detti soi padre et madre
et successivamente li soi figlioli siano patroni d’essi et possino liberamente
disponerne con consentimento expresso di detto suo marito come de beni soi dotali
– senza che alcuno delli parenti d’essi Sillano et Alegra si habiano
da intromettersi perché così tra loro si, è, convenuto
per patto expresso.
In questo caso si assiste ad un evento abbastanza inusuale per quei tempi, ed
è la donazione di tutto ciò che hanno ad un’unica erede
e cioè alla figlia da maritare, e nello stesso tempo con l’atto
notarile hanno modo di fare la propria assicurazione sulla vecchiaia invogliando
i giovani a vivere nella casa della sposa e non dello sposo come di solito accadeva.
Nello stesso tempo i coniugi de Ragno salvaguardavano – dopo la loro morte
- le loro proprietà da eventuali parenti prossimi sicuramente non ben
visti da loro.
Fin qui alcuni esempi di ciò che si può trovare nei fondi archivistici
e che ci aiutano a comprendere un sistema di vita lontano nel tempo e durato
ininterrottamente per secoli. Un sistema di vita che – seppur con lievi
modifiche – ha cessato di esistere non molto tempo fa.
Immagini fotografiche
Il "Mulino Nuovo" di Prato Sesia
La ruota del "Mulino Nuovo" di Prato Sesia
Prato Sesia la Roggia Mora e i mulini in un disegno del 1755 di F. Pietrasanta
Pane e prestinaj del tempo passato
Da sempre considerato la base dell’alimentazione
umana, il pane, o comunque quello che convenzionalmente è chiamato tale,
ha subito nel corso dei secoli delle profonde trasformazione dovuta a tanti
fattori, prima fra tutti la disponibilità degli ingredienti necessari
alla fabbricazione dello stesso. Originariamente era fatto con farina di farro,
o comunque alcuni tipi di graminacee chiamate spèlta, mentre già
all’epoca dei romani la farina di frumento era alimentazione per le classi
aristocratiche e l’alto clero. Tutto questo continuò ininterrottamente
per tutta la storia del genere umano per concludersi solo pochi decenni fa con
un benessere che troppe volte non permette di apprezzare un prodotto che le
nuove generazioni considerano come superfluo nella loro alimentazione.
A differenza del mulino, presente nelle comunità solo se esisteva la
forza generatrice dell’acqua necessaria a far girare le pale, i forni
erano pressochè presenti in tutte le comunità. A fine Settecento
vi erano due forni comunitari a Prato, quattro a Sizzano, Romagnano e Cavallirio,
tre a Ghemme, due a Grignasco ed uno a Ara. Tutelato da norme ben precise per
la composizione della mistura, durante l’epoca napoleonica era soggetto
a prezzo calmierato in difesa della popolazione più debole, ed inoltre
quello posto in vendita dai “panatieri” doveva essere “bello,
ben cotto e condizionato”. Le diverse qualità di misture,
a seconda della borsa dell’acquirente, lo facevano dividere in pane bianco,
pane nero, o nerissimo. Il pane di formento detto
griccino insieme al pane, pasta e farina di formento
era il pane bianco dei ricchi, mentre gli altri, cioè la maggior parte
della popolazione, si accontentava di acquistare le varie misture che potevano
essere di metà frumento e metà segale (disponibili solo per il
ceto considerato medio). Oppure pane di solo segale, o il pane nero di meliga.
Ma oltre a queste norme che vigevano specialmente nelle città, nei paesi
le misture erano ancor più particolari in quanto il contadino portava
direttamente al forno le proprie farine; e queste misture variavano in base
a ciò che era stato l’andamento dell’annata agricola. Nelle
estati molto piovose ad esempio vi era il grande pericolo di crescita in mezzo
ai grani, del loglio – pianta infestante molto nociva – che, raccolto
insieme ai grani, finiva col fare parte della mistura provocando parziali e
talvolta gravi avvelenamenti. Si confezionavano pani anche con dei composti
di meliga, crusca, ghiande di quercia e alcuni tipi di radice, mentre è
segnalato che in Valsesia si usava fare una sorta di pane con la segale che
opportunamente seccato si conservava buono e senza ammuffire per un anno intero.
Per tagliarlo si usava una sorta di falce con manubrio. In
valle Antigorio - scrisse Melchiorre Gioia –
si fa un pane durissimo che non può essere tagliato con il
coltello, ma che si spezza gettandolo contro un corpo duro. Cotto bene al forno
e seccato sopra cannette in solai aperti, si conserva intatto per 12 e più
mesi. La durezza interna essendo uguale all’esterna, non potendo essere
vinta dallo sforzo dei denti, non si suole mangiare questo pane se non dopo
averlo bagnato e ammollato con qualche liquore. Ed ancora osserva
un po’ sconsolatamente per la Val Formazza che crescendo il
freddo si fa il pane che serve pure per l’anno intero senza muffa giammai.
Egli è sano, durissimo, ottimo per asciugar gli acidi dello stomaco e
la difficoltà di rosicchiarlo ne diminuisce il consumo.
I forni comunali quindi – al pari dei mulini – diventano così
dei beni fondamentali delle comunità e per questo motivo sono soggetti
ad un serrato controllo ed a norme ben precise che ne regolano l’attività.
Normalmente venivano concessi in affitto di durata triennale con la sottoscrizione
di Capitoli intesi a salvaguardare le comunità:
Saranno tenuti mantenere gli utensili necessari a fabbricare il
pane ad esclusiva soltanto delle marne, e desco, che li manterrà la comunità.
Non potranno li fittabili ricevere altra mercede di loro fatica in andar viceversa
a portare dalla casa dè particolari residenti in Prato, al forno le farine,
per il pane, e farlo cuocere, che un pane per desco piano, che dovrà
essere di lunghezza braccia 4 e larghezza 1.
Saranno tenuti li fittabili tenere presso di sé la chiave dè forni
in tempo che non si eserciscono, né potranno consegnarle a persone per
servirsi dè medesimi in tal tempo a pena di riscaldare, a loro spese
li stessi forni risultandone grave pregiudizio al pubblico, oltre che si deteriorano
li detti forni, rendendosi anche freddi col proseguire l’abuso di lasciare
la chiave predetta a chiccchessia per servirsi d’essi per far cuocere
diversi commestibili.
Diventa a questo punto utile chiarire alcuni aspetti relativi al mestiere del
panettiere di quei tempi. Innanzitutto a differenza di oggi il pane non veniva
cotto giornalmente per la comunità, ma a scadenze alternate in funzione
degli usi famigliari. Certo il forno poteva anche funzionare tutti i giorni,
ma si può dire che funzionava “sub-affittato” alle
singole famiglie. Il compito del fornaio consisteva nell’andare alla casa
delle singole famiglie prenotate a prendere le farine, dopodichè preparava
i pani e li riportava cotti al legittimo proprietario tenendo per sé
– come nel caso sopra descritto – un pane per desco
piano, che dovrà essere di lunghezza braccia 4 e larghezza 1.
Quindi un pane di misura stabilità per ogni tavola coperta di pani lunga
circa mt. 2,64 e larga mt. 0,66. Non tutte le famiglie ovviamente potevano avere
a disposizione in ogni giorno dell’anno il materiale adatto a quella cottura,
sia a causa della crisi dei raccolti, o più semplicemente a causa di
colture diverse nei loro appezzamenti. In tal caso il fornaio diventava prestinajo,
vendendo quindi egli stesso il pane avuto come pagamento della cottura svolta
per altri.
Fin qui alcune norme relative al pane e ai panatieri dei primi anni dell’Ottocento,
ma abbastanza interessanti e curiose risultano le Conventioni per i fornai e
prestinai dei secoli precedenti. Il documento che si propone risale al 3 dicembre
1575 e fu sottoscritto dai consoli di Romagnano e messer Battista Scaccabarocy
pristinajo de Cavalio.
Prima che la locatione ne qual si farà in detto messer Battista
sia per almeno di anni sette, et che possa far fare il suo pristino in casa
impune senza obligo di andar ad altro forno.
Item che detto messer Battista possi far detto pristino cò agiutto (aiuto)
di chi a lui parera, et ancora lo possa far far da altri parendoli.
Item che alcuno in essa terra di Romagnano possa ne voglia far fare forno over
pristino in casa propria durante la detta locazione eccetto detto messer Battista.
Item che nessuno forestiero possa menar ò far condure pane per vendere
alla detta terra di Romagnano contra la raggione.
Item possa è voglia il detto messer Battista fare ò far fare il
suo pane del pristino. una onza mancho della mettà et correrà
alla città de Novara per il pane che sara per uso di quelli di Romagnano.
Item che detto messer Battista possi comprar il grano alla piazza ancor che
fosse giorno di mirchato. et qual giorno si voglia.
Item che pagando detto messer Battista la sua parte per li beni
comuni come fanno li altri, possa ancor participar in comune di quello li fara
bisogno.
Item che quando li deputati vorano pesar il pane qual sera fatto per esso messer
Battista et soi agenti per uso di la terra di Romagnano habbiano da far l’offitio
detti deputati nella casa overo pristino di esso messer Battista è non
in altri lochi. et questo subito fatto aver cotto il pane, o almeno doppo per
spatio di hori vintiquatro.
Come spesso accade leggendo documenti molto antichi si ha alcune volte la sensazione
di non comprendere a fondo certe frasi non più ormai nel linguaggio comune,
e così anche in questo caso si ha difficoltà di capire una
onza mancho della mettà et correrà alla città de Novara
per il pane che sara per uso di quelli di Romagnano. E’
molto probabile che il ragionamento così chiaro a quel tempo, fosse finalizzato
ad una norma ben precisa sul peso dei singoli pani da mettere in vendita, e
sulla garanzia del rifornimento del pane per la comunità romagnanese.
Una conferma in tal senso viene dall’ultimo capitolo sottoscritto in cui
i deputati della comunità possono controllare il peso dei pani che il
prestinaio metterà in vendita. Questo controllo dovrà avvenire
a casa del prestinaio e sopratutto non oltre 24 ore dopo averlo cotto.
La precisazione del pane del pristino significava
invece il pane destinato alla vendita, perché com’è detto
chiaramente il locatore poteva fare pane per proprio uso e consumo, pane su
commissione, e pane per essere messo in vendita.
Le “scherpe” di Prato attraverso i secoli
Come per molti altri argomenti anche l’analisi
dei fardelli nuziali del tempo passato presenta un interesse storico da non
sottovalutare e così si può comprendere le abitudini del tempo
registrando lo scarto differenziale da cultura a cultura, da luogo a luogo,
da epoca a epoca. Con questo obiettivo si vuole quindi tentare una breve analisi
delle “scherpe” pratesi ricordando però
prima, che come per tutti gli argomenti di carattere storico è necessario
collocarsi mentalmente in quel determinato periodo in cui la lotta per la sopravvivenza
lasciava poco spazio ad altre cose non strettamente necessarie. La “scherpa”
così come noi la conosciamo attraverso i documenti notarili – seppur
povera – è già qualcosa in più rispetto alla normalità
della vita di quel tempo, perché la maggioranza di quelle famiglie non
possedeva neppure quel tanto che valesse la pena di descrivere in un atto anch’esso
costoso. La maggioranza di quelle persone si sposava portando con sé
ciò che aveva indosso, e forse poco altro, a seconda della quantità
dei fratelli presenti in famiglia. In ogni caso negli archivi si trovano documenti
relativi anche alla povera gente, e questo era già un segno di distinzione
che stava a significare un interesse maggiore nei confronti della figlia da
marito per il suo futuro, e nel contempo una propria giustificazione di aver
fatto ogni sforzo per il suo bene.
Il primo documento è relativo al 1595 con la nota della schirpa
di Margarita Pantrota andata in sposa a Marchino filliolo di Gaudenzio. Il complesso
dotale era del valore di 202 lire imperiali suddivise in questo caso tra 102
lire di valore degli oggetti della “scherpa”,
con l’aggiunta di 100 lire in denaro contante.
Prima uno terliso
E più uno biancho celestro imbandado di verdo
E più uno biancho celestro, et uno biancho biancho con le sue manigui
verda di saija et uno para di panno verdo
E più schosali tre con il suo lavoro di ha basso
E più lancoli (lenzuoli) tre
E più foay (forse fazzoletti da testa) tre
E più guatro mantiletti con una fudrigella
E più chamisi 5
E più ? 5
E più una pecca (pezza) di tila di chaneva (tela di canapa)
E più uno para di manighi di panno et uno para di chalcetti (calzetti)
arcantino
E più uno schosalo di tella celestre
E più una pilica nova completta
E più braca (brazza-misura) sei saia verda
E più uno mezo braci di pano verdo
Il terliso è senza dubbio un abito non meglio
specificato. La saija o saia
in questo documento è intesa come un tipo di panno leggero di poco valore.
Più avanti il vestito intero sarà chiamato saia.
Per pilica, visto il vizio di scrittura notarile in
cui le zeta sono trasformate in c, si può intendere come piliza
(pelliccia) non a caso riporta un valore stimato in 16 lire, ancor
di più del valore dei tre lenzuoli insieme.
Decisamente più chiara risulta la scherpa di
Caterina Arienta data ad Antonio Chiarino di Prato in data 27 settembre 1621.
Il complesso “dotale” assommava a L. 351 di cui 151 in materiali
da “scherpa”.
Primo doi lenzoli frusti (usati) et un novo con sue federe
Una saia morella con doi lavorini
Un'altra saia paiade con doi altri lavorini a torno
Una bombacina (abito di cotone) biancha con doi altri lavorini a torno
Una pelliccia discoperta
Sei scossali bianchi tutti con il lavoro dentro
Tre camisse da donna nove
Sei altre camisse da donna dismetrite
Tre mantileti novi (panno da mensa)
Undeci colletti
Una tovaglia da tavola di braccia tre
Una pezza di tela terta?
Doi fodrette nove con attorno de intagli de lavoro fatto a osso
Una tovaglia di lino con lavoro
Doi altre fodrette con dentro il lavoro fatto d’osso
Un lenzolo di tela novo con dentro il lavoro fatto a osso
Doi tovaglie con lavoro fogiato dentro
Una altra tovaglia con lavoro dentro
Un cassone di noce
Un letto di piume
La dote complessiva di Margherita Bonola/Sesone stipulata nel 1734 assommava
a lire 240 di cui lire 147 per materiali di scherpa.
Prima una bombasina biancha con suoi lancini con maniche di duranto
Più una saia verda solia con maniche di duranto
Più una saia morella (color paonazzo) solia con maniche di durando
Più altra saia morella solia con maniche di meza lana
Più una ? solia senza maniche
Più una meza lana ? senza maniche
Più una camisetta di panno rossa
Più un lancolo (lenzuolo) novo di pecca (pezza) con sua cerata
in cima
Più una tovaia con sua fornitura di dentro
Più un lancolo di pricha di pecca con sua cerata in cima
Più quatro camise usate
Più camise tre nove
Più un biaudello biancho novo
Più un facoletto di paicha di cambraia con suo picco (pizzo)
Più una cassa di pubia (pioppo)
Più un scosalo di cambraia con suo picco d’interno
Più un scosalo tarlisato e un altro di tela di lino lisato
Più per duve fodere da cussino
Più per un para calcetti (calzetti)
Per maniche di mezza lana si intende un tessuto misto di lino o canapa con lana
relativo alle sole maniche, mentre nel caso come sopra: più una meza
lana senza maniche si intende un tipo di vestito intero sempre
fatto con gli stessi materiali. Nel caso specifico il biaudello è certamente
inteso come coperta da letto.
Veniamo ora al 1812 con la dote di Barbara Buzzi di Zuccaro andata in sposa
a Filippo Sainaghi. Il totale della scherpa in questo caso sale a lire 317.
Calcete di lana panadi (color panna) usadi paia tre
Due camisote di mezalana una rossa altra negra
Due altre camisote di pano rosso usate
Un biaudelo di tela argentino
Una bambasina usatta
Una mezalana guasi nova negra
Una traversa rigatta da fillo e lana
Una vestta di saietta (saia) scura
Una mezalana scura usatta
Una altra bambasina
Una altra mezalana negra
Una altra saetta scura
Una caldera del ramo di peso tredici lire (libre) e meza
Scarpe paia tre usatti
Salesi quatro di vaselo peso lire vintenova
Uno pinazzo per la canepa
Una padela da azallo
Una cadena di fero di foco
Rissta(canapa) di filare
Due scosali della festa
Due scosali e una traversa di tela
Facoleti di musolina numero sei
Una musolina
Mezalana nova brazza
Camisie numero cinque
Tella nova due peze e meza
Due ciponi bianchi
Una besacha di tela e una coperta con un lenzolo
Una coperta di filo
I due ciponi bianchi non sono altro che i “gipponi”,
tipo di giacca di cotone tipiche della zona di Cellio e Valduggia come ha ricordato
Alfredo Papale. Non solo, ma anche in questo caso non mancano nella scherpa
le classiche camicette rosse che sembrano essere l’elemento significativo
dell’abbigliamento di quei luoghi. Ma ciò che più interessa
di quest’elenco è la presenza di materiale non propriamente legato
all’abbigliamento e biancheria in generale, tra i quali vediamo la caldera
di rame, oltre alla pentola e alla catena di ferro ad uso del camino.
Si è fin qui descritto, un pò sommariamente i vari tipi di scherpe
“povere”, ma pur sempre sopra la media delle doti poverissime non
presenti negli archivi. L’ultimo esempio invece si riferisce a doti –
anche se non nobili - particolarmente benestanti, dove il segno di distinzione
sociale era fondamentale anche sotto questi aspetti. La scherpa in questione
è quella di Caterina Furgotta andata in sposa a Carlo Genesi. Le più
ricche famiglie pratesi se si esclude quella del nobile Gibellini. L’atto
venne stilato nel 1653 ed il valore complessivo era di 1683 lire con una scherpa
di 363 lire in materiali (esclusa la cassa di noce).
Prima una veste di filisello verde con maniche d’ormesino
velutato fatto à opera con cinque lavorini guarniti di sotto.
Più una saietta morella guarnita con 4 lavori e maniche verdi fatte à
opera
Più una veste morella di saglia bergamasca con maniche di davanti franzate
E più una bombasina bianca con lavori neri con maniche di filisello verde
E più un lenzuolo di tela di lino casalenga con la cucitura e pizzi di
sotto
E più tre lenzuoli di tela di canape e cucitura e pizzi, et uno con lavoretti
Più camise n° 10 – nove di tela di canape
Più altre camiscie n° 9 usate
E più porghere nove n° 10 di tela lino lavorate con pizzi neri, e
bianchi e cuciture fatte à pichetti
E più scosali di tela di lino n° tre con lavori fatti à mano
E più uno scosale tela signata ……..
E più scosali doi tela canepa con lavori e pizzi
E più fodrette due para di tela canepa con lavori fatti à mano
E più un paro fodrette tela lino lavorati con rete
E più una tovaglia tela lino fatto à rete
E più due tovaglie tela lino usate con lavori fatti à osso
E più un scosale di tavolo
E più una tovaglia dà tavola di tela casalenga, et una servietta
usate
Più tre para mantiletti
E più mezza dozzina di fazzoletti
E più una tovaglia lavorata à seta rossa fatta à opera
E più doi fasse tela lino e canepa lavorate
E più un fazzoletto con pizzi d’oro
E più una pelizza
E più si dà una cassa di noce nova
E’ molto probabile però che non tutto sia stato segnato specialmente
per quanto riguarda le cose strettamente personali la Furgotta poteva avere
indosso riferendosi ad eventuali anelli d’oro o collane, anche perché
in altro documento dell’epoca e sempre relativo ad una Furgotta, questi
venivano descritti pur non specificandone il valore. Il documento in questione
redatto nel 1665 è relativo alla scherpa di Margherita Furgotta andata
in sposa a Francesco Maria d’Agostino di Romagnano. Il valore del materiale
in questo caso assommava a lire 464, mentre la cifra totale della dote superava
le duemila lire imperiali. Una cifra enorme per quei tempi se si pensa che l’acquisto
di un pezzo di terra di tremila metri quadrati si aggirava intorno alle 200
lire imperiali.
Prima una saglia morellina di Millano con maniche di durante et
lavorini tre
Di più una saglia argentina con tre lavori et maniche di davanti
Di più una bombasina biancha con tre lavorini et maniche di durante
Di più lanzoli tre di tela dieci con il lavoro fatto à ossi et
la franza
Di più un lanzolo di lino con il lavoro fatto à mano et li pizzi
Di più camise n° 20 tutte nove
Di più scosalli tre di cambraglia novi con li pizzi et lavoro fatto à
osso
Di più camise sette smediate
Di più doi scosalli di lino con il lavoro fatto a mano con li pizzi
Di più scosalli tre di tela dieci con il lavoro fatto à mano e
con li pizzi
Di più scosalli duoi di lino con pizzi e uno lavorato di seta nera
Di più una pezza tela dieci ?
Di più mantiletti 4 et una tovaglia da tavola et servietta
Di più una tovaglia di lino con li pizzi et lavoro fatto à rete
Di più una tovaglia di lino con lavoro et pizzi
Di più una tovaglia di cambralia con il lavoro et pizzi
Di più colari sei con li pizzi
Di più una saglia morella chamosso con le maniche di ?
Una camisola di panno rosso
Una pelizza biancha
Una vesta da farsi, et questa sarà o un canuazzo o una di panno chiamato
gimosono di Milano
Di più una cassa di assi di noce con li suoi piedi lavorata di torno
Di più doi anelli d’oro uno con una rosetta d’unita quatro
granate di peso denari cinque e grani 6
L’altro è un anello d’oro con dentro una serpentina d’oro
di peso denari doi et mezzo
Di più un scosallo di lino nero
I contratti d’insegnamento scolastico nei secoli passati
Come tanti altri argomenti di carattere storico
che emergono dagli archivi, anche quello relativo all’insegnamento scolastico
riveste una grande importanza per la comprensione e lo studio dell’evoluzione
che tale sistema ebbe nel corso dei secoli, giungendo poi – dopo un lungo
cammino – alla sconfitta dell’analfabetismo. Con alcune brevi considerazioni
si vogliono proporre in questa occasione alcuni documenti che si ritengono abbastanza
interessanti, e che aiuteranno certamente in futuro a delineare un quadro complessivo
sull’istruzione nelle nostre zone ancora da approfondire compiutamente.
Il primo documento riguarda la comunità di Romagnano ed è datato
5 aprile 1575. L’accordo venne stilato dai consoli e consiglieri della
comunità con Vittorio Muccio di Lucignano maestro di scola.
promette detto messer Vittorio alli sodetti nobili consoli et consiglieri
presenti et accettanti, a, loro nome et de tutta l’università di
Romagnano di star et abitar per ferma habitatione in la terra di Romagnano per
anni otto proximi dalla festa di San Michele proximo che verra et tenere scola
publica come fa di presente imparando fidilmente le littere alli figlioli che
si mandarano ala scola et solecitar detta scola senza perdita alcuna di tempo
durando detto tempo de anni otto quali comenzerano come sopra.
Et detti nobili consoli et homini del consiglio come sopra nominati a loro nome
et, a, nome della università tutta e quali essi rapresentano promettono
al detto messer Vittorio presente et accettante di darli et pagarli et che jeli
pagara ogni anno proprio il tesorere della Comunità scudi vinti cinque
d’oro et, pagarli il fitto della casa dove s’abitera et tenera la
scola, delli dinari della Comunita.
Item se convenuto che possa farsi pagar dalli scolari andarano a la scola nel
modo et forma come qui da basso
Dalli figlioli della carta a, conto de soldi cinque ogni mese 50
Da li sel. (sillabario) Donato senza scriver 79:6
Da …. 109
Da li dello exame settimanale Imperiali per caduno mese 15:9
Da li sopra a quello de ……. 209
Per cadun mese et questo tal pagamento se fara oltre li scudi vinti cinque et
fitto della casa come sopra la quale capitolazione le dette parti qui presenti
et accettanti convenendo et promettano averla et tenerla per rata et ferma sotto
obligo delli beni della Comunita et etian propri, et per magior fermezza hano
giurato et giurano in mane di mi sottoscritto notaro.
Il documento non lascia intendere se prima di quel tempo vi era già stato
un precedente contratto con qualche maestro di scuola, però al tempo
stesso si comprende benissimo che questo è un esempio di insegnamento
laico – indipendentemente dalle materie d’insegnamento - e non legato
alle classiche convenzioni di cappellani insegnanti di cui si parlerà
in seguito. Va anche detto però che questo insegnamento presupponeva
una contribuzione finanziaria da parte delle famiglie dei partecipanti alla
scuola, anche se tale contribuzione non è molto comprensibile nel suo
dettaglio
Una successiva convenzione di Romagnano avvenne il 30 aprile 1582 con il maestro
Giuseppe Rosato di Banzola – Monti Ferrati.
Primo chel detto maestro Giuseppe Rosato habbia et debbia stare
per anni cinque proximi in Romagnano per maestro di scola et imparare fidelmente
et con ogni diligentia et amore à tutti li figlioli che andarano alla
scola in detto tempo come così detto maestro Giuseppe promette et si
obliga stare et insegnare come sopra.
Item convenerunt che li detti Consoli et consiglieri habbiano et debbiano dare
al detto maestro Giuseppe la solita casa di Santo Spirito et pagarli scuti vinticinque
d’oro l’anno per detti anni cinque et quali si habbiano da pagare
in quatro termini cioè, ogni tre mesi et sempre anticipatamente et qual
casa et dinari conveneno et promettono li detti Consoli et consiglieri dare
et pagare al detto maestro Giuseppe in detti termini come sopra sotto obligatione
de soi beni.
Item convenerunt che oltre li sudetti scuti vinticinque d’oro
et casa come sopra il detto maestro Giuseppe possi pigliare et farsi pagare
dalli scolari quali anderano alla scola cioè, da quelli che legerano
la carta soldi cinque, da quelli del donato soldi dieci da quelli dalle concordantie
soldi quindeci et dalli magiori à quali si legerano li autori soldi vinti
imperiali per chaduno mese et qual paga et qual dinari il detto maestro Giuseppe
se li possa far dare et pagare ogni mese da ciaschuno d’essi scolari anticipatamente
et à ogni calende del mese.
In questo caso leggendo quest’ultima parte si riesce a capire qualcosa
in più a riguardo della contribuzione finanziaria degli studenti.
Risale invece al 29 aprile 1617 il primo documento conosciuto sulla scuola di
Prato, ed in questo caso l’accordo per l’insegnamento è delegato
al cappellano Carlo Rossi che oltre a svolgere quella funzione doveva garantire
alcuni particolari servizi religiosi in favore della comunità. Va osservato
però che l’insegnamento scolastico diventava in questo caso completamente
gratuito tanto ai poveri quanto ai ricchi.
Primo che sij obligato insegnare a legere scrivere, et di gramatica
a tutti li filiuoli della terra di Prato tanto poveri, come richi.
2 – che sij obligato benedir il tempo in tutte le aulazioni tanto di giorno,
come di notte.
3 – che sij obligato inservire à tutte le messe cantate, tanto
dè vivi quanto de morti gratis eccettato per quelle delle anime del Purgatorio.
4 – che sij obligato intervenire à tutte le Processioni, tanto
generali, come particulari le quali si faranno nella terra di Prato.
5 – che sij obligato intervenire alla Dottrina Christiana, et à
tutte le fontioni parochiali.
6 – che sij obligato in presenza, et absenza del signor Curato administrare
qualsivolia di necessità dir vespero et questo senza pregiuditio del
detto signor Curato.
7 – che sij obligato celebrar tre messe la settimana per tempo alla commodità
del populo per la Comunità et le altre quatro la settimana le possa dir
per quelli gl’le pagaranno.
E in facendo come sopra il sudetto Reverendo signor Carlo Rossi
la Comunità e per lei li Consoli e Consilieri si obligano di dargli lire
duecento imperiali l’anno et che possa far le solite cerche per la terra
et suo territorio et anco si obligano detti Consoli e Consilieri di dargli per
la casa lire vintiquattro l’anno.
Il documento presenta anche un aspetto curioso ed è che il cappellano
era tenuto a servire gratuitamente le messe dei vivi e dei morti, eccetto quelle
delle anime del purgatorio che dovevano essere pagate. Un successivo documento
pratese risulta datato 1651, ed a quella carica venne eletto don Francesco Cruvus.
Questo documento ci permette di comprendere meglio il significato delle solite
cerche, che in realtà non erano altro che le tre rogazioni che si svolgevano
nella terra di Prato fino alle tre cappelle campestri.
Primo – che sia obligato detto Reverendo signor Francesco
dir la messa ogni giorno alla matina a bon hora cioè cinque per la Comunità
et duoi per lui ogni settimana ecetto che se il signor Curato la volesse dir
lui à bon hora qualche volta, che in quel giorno detto R.do S. Francesco
sia obligato dirla à mezza matina.
2 – che sia obligato tener scola gratis à tutti li filioli della
terra.
3 – che sia obligato intervenir à tutte le processioni che si faranno
tanto à Santa Maria come altrove.
4 – che sia obligato intervenir alla Dotrina Christiana ogni festa.
5 – che sia obligato intervenire alle messe grandi et vespero tutte le
feste.
6 – che debba intervenire alla benedizione del tempo massime l’estate
in tempo di sospetto di tempesta.
7 – che possi ricevere mercede per doi messe la settimana.
8 – che sia obligato assistere alla confessione la prima e 3° domenica
di ciaschedun mese et le feste grandi et confessare et altri giorni se farà
di bisogno.
9 – che possi fare tre cerche per la terra ciaschedun anno
cioè una del grano grosso et l’altra del grano minuto et l’altra
del vino et per dette cerche pigliar quello li sarà datto.
Il salario in questo caso veniva fissato in 300 lire all’anno oltre la
casa d’abitazione, ed il contratto a differenza di quello precedente,
aveva durata triennale.
Fin qui alcuni documenti antichi anche se purtroppo da quelli non emergono indicazioni
sulla reale partecipazione dei giovani alla scuola, che dovrebbe essere stata
comunque di poca entità. La stessa frequentazione diventava poi saltuaria
specialmente durante l’epoca dei lavori campestri. Dal primo documento
presentato e relativo alla scuola di Romagnano nell’anno 1575, si può
ricavare un’ipotesi per quell’anno in quel luogo, ed è la
stima che il maestro poteva farsi pagare dalle famiglie: dalli figlioli della
carta a, conto de soldi cinque ogni mese = soldi 50. La previsione poteva essere
quindi di 10 alunni.
L’istruzione era ancora considerata una perdita di tempo ed un lusso,
e solo pochi di quei giovani erano stimolati ad una maggiore conoscenza fuori
dal loro ristretto mondo.
1634 – mercoledì 5 aprile – Inventario delle
scritture et libri della Comunità di Romagnano quali erano in casa del
signor Albertini oltre ad altre cause di detta Comunità.
Primo il libro del taglione scosso
dal signor Sillano Capra l’anno 1628 a pag. 621 ? alto una spanna.
Un libro dell’estimo di Romagnano con li cartoni rossi sfolliato sin al
n° 125 con 4 foly bianchi di dietro fatto l’anno 1573 signato A.
Un altro libro dell’estimo 1595 con li cartoni rossi frusti in fogli 174
Un libro di beni comunali di Romagnano senza cartoni di fogli n° 33
Un altro libro di taglia dell’anno 1598 con li cartoni rossi sfogliato
in almeno 32 et tutto il resto bianco
Un altro libro di provisione con li cartoni bianchi fatto l’anno 1552
sfogliato sino al n° 87
Il quinternetto dell’estimo civile
Altro libro con li cartoni bianchi
Altro libro de debiti et crediti con li cartoni bianchi vecchi
Altro libro de processi con li cartoni di cravina vecchi alto tre dita per li
anni 1603 – 1604 – 1605 sfogliato con almeno 40 – il raso
in bianco cioè mittà
Un libretto dell’Ingualanza 1633
Un libro delli Ordini della Comunità di mano del signor Giò Antonio
Ginesio 1608 al finire 1614 con li cartoni bianchi
Altro libro di provisione dell’anno 1614 sino 1615 scritto dal medesimo
Genesio di fogli 45
Altro libro di taglia 1614 – 1615 – et 1616 con li cartoni bianchi
scritto una parte di mano del signor Carli
Un sfoliazzo d’incanti delli anni 1558 – 1559 – 1560. Li conti
delle (spese) datte per li mollini dell’anno 1620 da Francesco Brugho
Ruighetto
Altro libro della comunità di Romagnano per li anni 1596 – 1597
– 1598 et 1599 con li cartoni di caprina sfolliato con almeno 161
Altro libro de processi rogato dal signor Benedetto caneparo con li cartoni
di sfogliato con almeno 161
Altro libro dell’estimo vecchio, con li cartoni bianchi vecchi
Quinternetti delle entrate? Di Romagnano dell’anno 1614 con censi istrumenti
de censi fatti a favor della Comunità n° 4
Il quinternetto dell’estimo reale, con altri de conti d’essa comunità
Una tauletta piena di scritture della detta comunità di diverse sorti
Altra tauletta dscritture dell’hospitale di diverse sorti partata a casa
di me infrascritto del signor Sillano Capra agente del detto hospitale
Quali scritture erano tutte in detta casa di detta Comunità travata serata
con chiavi, et seratura quale essa è di noce che altre volte fu adosso
al signor Albertini dalla comunità assegnata.
Fuori d della detta cassa,, sopra la sua scancia et dentro nel suo cardenzino
sempre chiavato si sono trovate le infrascritte scritture
Ordini diversi della detta comunità fogli 83 con altre scritture diverse
d’essa in filza alta quasi una spanna
Quinternetti di taglie, et alloggi, con visite diverse n° 25 fatti nelle
taglie vecchie
Quinternetti dei grani n° 9 con altre scritture per l’incanti delle
entrate della comunità
Altro libro delli Ordini di detta Comunità con li cartoni bianchi 1623
et finisse 1628
Una filza di diversi conti d’essa Comunità con diverse altre scritture
d’essa alta una spanna
Una filza di diversi confessi
Il libro della taglia 1629 – 1630 – 1631 con li cartoni bianchi
sino al n° 226, oltre sfogliazzi bianco sino mittà di detto libro.
Quali libri et scritture sono statti reposti in detta cassa insieme delle altre
dell’infrascritto notaio. Sisono
ancor agiunti li quinternetti delli alloggi 1627 – 1628 – 1629 –
1630 et 1631 quali sono n° 9 compreso quello delle spese mosse in detta
taglia quali non ha voluto lassarmi metter in detta cassa
Domenica 7 settembre 1631 – Costituzione del Monte di Pietà
e dote alle zitelle da parte di Bartolomeo Furogotti.
In nome della Santissima Trinità
Vergine Maria.
Per il presente pubblico istrumento sia noto, et manifesto à qualunque
persona, et in qualsivoglia locho, qualmente nell’anno della natività
del nostro Signore Giesù Christo mille è seicento ventinove, nell’inditione
duodecima, ma nel giorno nono del mese di novembre, nel tempo del pontificato
di Nostro Signore Urbano per divina providenza Papa octavo anno suo settimo.
In presenza di me notaro publico, et testimonj infrascritti presente è
personalmente constituito, il magnanimo signor Bartolomeo Furgotto da Prato
Diocesi di Novara, et cittadino Romano figlio della buona memoria di Bartolino
Furgotti da me notaro ben conosciuto mosso da puro zelo dell’honore di
Dio per agiuto de poveri, et in salute dell’Anima sua e dè suoi
prossimi di sua spontanea volontà et in ogn’altro meglior modo
irrevocabilmente ha donato et dona con donatione irrevocabile solita à
farsi tra li vivi alla Comunità di detta terra di Prato sua patria ancorchè
absente me notaro come persona publica per essa, et per altro da nominarsi come
appresso si dirrà presente accettante, et legittimamente stipulante per
la causa però, et all’effetto che qui appresso verranno da lui
dichiarate, et non altrimente, né in altro modo di che espressamente
si è protestato, et protesta, due sue case congionte insieme poste in
detta terra di Prato nella strada corrente mercantile, una dè quali fa
cantone in capo strada verso l’acqua delle mole nella qual casa altre
volte ce si esercitava la ferraria nel cui di fora è un’imagine
di Sant’Antonio dall’altra parte confinano con la casa del signor
Pietro Ottino dietro le case beni hereditati dal signor Gallone salvi altri
più veri confini da specificarsi sempre che ne fusse di bisogno con tutti
è singoli membri raggioni, e pertinenze dal centro della terra sino al
Cielo, ad effetto però di destinarle sì come adesso esso donatore
le destina ad effetto di ereggervi et fondare in esse un Monte dell’Annona
dentro il quale si habbia à conservare, è custodire quella quantità
di grano, segala, miglio, è meliga secondo meglio parerà all’infrascritti
deputati, et a tale effetto pone la detta comunità in luogo, raggione
è privilegio suo costituendola da adesso procuratrice irrevocabile come
in cosa propria à prenderne possesso è tra tanto si constituisce
l’una, et l’altra delle sudette case per l’effetto però
sudetto, et infrascritto tenere, è possedere à nome di lei con
la clausola del precario, et constituto in forma. Et in oltre per facilitar
maggiormente l’effettuatione di detto Monte, e la direttione di detta
opera Pia dona anco da adesso irrevocabilmente come sopra all’istessa
magnifica Comunità benchè absente cento ducatoni di moneta corrente
in quelle parti, quali promette, et in termine di un mese prossimo fargli pagare
è sborsare in mano dell’infrascritti signori deputati, è
procuratori parerà più espediente utile et profittevole ad esso
Monte per riporli però, è conservarli dentro le sudette case per
dispensarlo poi à poveri di detta terra nel modo che apresso più
amplamente si dichiararà. Et affinchè le stesse case si reduchino
quanto prima atte, è capaci per effetto sudetto promette anco nell’istesso
termine d’un mese prossimo di far sborsare in mano delli medesimi deputati,
et procuratori altri trenta ducatoni simili con li quali possino restaurare,
et appropriare le sudette case per l’uso et efetto sudetto, qual……..similmente
dona per il medesimo fine à pura gloria del signor Dio è bon progresso
di detta opera, quale doverà governarsi sotto la particolar cura, et
governo del magnanimo signor Ulietto Furgotti suo fratello carnale il cui beneplacito
anco ha reservato, et reserva in tutto il presente contratto acciò et
esso, et i suoi heredi, è descendenti habbino à participar sempre
del merito di questa santa opera, è doppo morte del detto Ulietto, detto
donatore intende è vuole che in suo luogo succeda uno de suoi descendenti
in perpetuo, che di età sarrà maggior de gl’altri, è
che habitarà in detta terra de linea masculina, è mancando la
detta linea masculina legitima, et naturale succeda in detta cura il più
prossimo del ceppo, et fameglia de Furgotti che pro tempore sarrà il
più vecchio d’età de tutti gl’altri, è risiederà
in detta terra, et in evento che in essa terra, non vi rimanesse alcuno di detta
linea legittimo però, et naturale si contenta, et vuole, che benchè
ve ne fusse alcuno del istessa fameglia absente da detta terra succeda nell’istesso
carico con facoltà di sostituire un altro à suo beneplacito, et
elettione durante la sua absenza, l’altro deputato intende è vuole
che sia il detto signor curato pro tempore della Chiesa Parrochiale di San Bernardo
di detta terra, et per terzo deputato intende, è vuole che siano sempre
li signori Consoli pro tempore di detta terra. Alli quali signori deputati esso
signor donatore attribuisce da adesso, è concede amplissima facoltà
di reggere, governare, et administrare il detto Monte con impiegare da adesso
li sopradetti denari da lui donati come sopra per comprar de sudetti grani,
segala, miglio, è melga ò in alcuno dè detti quattro sorti
di Annona secondo annualmente giudicaranno esser più utile, e profittevole
per detta opera Pia è comprato che l’haveranno lo debbano conservare
dentro al sudetto Monte da fondarsi nelle sudette due case donate sotto tre
chiavi, una dè quali debba star sempre in mano, et in potere del sudetto
signor Ulietto sin che viverà, è doppo sua morte apresso à
quello che de suoi descendenti avero del ceppo de Furgotti succederà
in suo luogo come sopra, l’altra chiave doverà conservarsi appresso
al reverendo signor curato e l’altra appresso à signori consoli
pro tempore di essa terra, ad effetto però da distribuirsi da loro, dalla
prima settimana di quatragesima susseguente in poi à quelli poveri di
detta terra, che ne haveranno di bisogno per quella quantità però
che da detti signori deputati gli sarrà giudicata necessaria per mantenimento,
è sostegno delle loro fameglie per li prezzi però, che nel tempo
di detta distributione è consegna comunemente correranno nella piazza
over mercato, con riceverne in contanti il prezzo, è quello ricevuto
tenerlo, et conservarlo in una cassa con altre tre chiavi da conservarsi appresso
di loro come sopra, dalla qual cassa in tempo delle susseguenti raccolte si
debba estrahere tutto il prezzo esatto, è investirlo in compra di altri
simili grani ò altre meschiure sudette, è l’istesso si debba
osservar sempre de anno in anno assieme con tutti gl’utili, et avanzi,
che alla giornata si verranno facendo come sopra, quali frutti intende, è
vuole che accreschino, è si moltiplichino sempre in beneficio, et utilità
di detto Monte per continuo agiuto, è sollevamento della povertà
di detto territorio. E se taluno nel ricevere che farrà li sudetti grani
ò altra mischiura dal sudetto Monte come sopra non havesse pronto il
denaro del suo prezzo, possa lasciar in detto Monte un pegno equivalente almeno
per un terzo di più di quello che doverà, e non altrimente, è
quello si debba custodire in detto Monte sino alla finita raccolta del grano
ò d’altra meschiura che li sarrà stata consegnata come sopra
ad effetto, ò de riportare altre tanto grano ò d’altra meschiura
per li prezzi però che in detto tempo di raccolta correranno in detta
piazza ò mercato overo di pagare in contanti al detto Monte il detto
prezzo di che sarrà stato creato debitore nell’atto del deposito
del pegno, è caso che in termine di quindici giorni doppo la raccolta
dè grani ò d’altra mischiura consegnatali come sopra, non
havesse quel tale riportato il denaro overo tanto grano ò altra mischiura
per la valuta all’hora corrente come sopra, li signori deputati, è
provisori sudetti debbano incontinenti far vendere quel pegno, all’incanto,
al più offerente in giorno destinato precedendo però la grida
solita, è del retratto di detto pegno reintegrarsi del credito, et il
sopravanzo se ve ne sarrà restituirlo al debitore. Et acciò delle
cose sudette se ne tenghi minutissimo conto con quella realtà, è
carità, che si possa ordina è vuole si tenghino sempre tre libri
uniformi da conservarsi appresso ad essi signori provvisori cioè uno
appresso la casata Furgotti, l’altro appresso al reverendo signor curato,
è l’altro appresso alli signori consoli pro tempore in ciaschun
dè quali si debba puntualmente è giornalmente annotare il tutto
ad effetto che con la prudenza carità, et sollecitudine loro tutti gl’avanzi,
et utili che pro tempore finissero per cavarsene, venghino cumulando in ampliatione,
et utilità di detto Monte per commodità però è sollevamento
maggiore de poveri pro tempore di detta terra. E se mai per alcun tempo il detto
Monte tanto con li sudetti utili, et avanzi come anco con altre lassite, ò
agiuti de altri benefattori, che concorressero à questa Santa opera si
accrescesse, sì come esso donatore spera con la Santa gratia del Signor
Dio, et aura dello Spirito Santo in modo, che havesse sempre di capitale fermo
sopra la somma de trecento ducatoni allhora, et in tal caso il signor donatore
intende è vuole che da sudetti signori deputati, è provisori si
distribuisca ogn’anno una dote di dieci ducatoni, et una veste di saia
turchina di mosso ad una zitella di buona vita conditione è fama, che
sia da detti signori deputati, è provisori conosciuta, et eletta più
bisognosa dell’altre, et in evento che nascesse sopra tale elettione alcuna
dissentione fra di loro, si elegghino tre zitelle conditionate come sopra cioè
una dal reverendo signor curato l’altra da signori consoli è l’altra
dal signor Ulietto ò altro di casa Furgotti che sarrà deputato
come sopra, è si descrivino in tre bollettini, e la prima che uscirà
a sorte dalla bussola habbia la dote sudetta nel giorno della Santissima Natività
della Gloriosissima Vergine nel qual giorno detta zitella debba ritrovarsi con
la sudetta veste avanti l’altare della Madonna nella chiesa parochiale,
et ivi celebrata che sarrà la santa messa alla presenza de sudetti signori
provisori si consegni alla detta zitella la cedola sottoscritta da loro di detto
sussidio dotale per consegnarseli prontamente nel tempo, che haverà contratto
il matrimonio, e l’istesso si osservi de anno in anno inviolabilmente
come sopra. E se per gratia del signor Iddio il detto Monte crescesse di capitale
sopra la sudetta somma de trecento ducatoni per ogni centinaro di più
che crescerà debba dotarsi un’altra simil zitella nel modo è
forma, è tempo detti di sopra, è sempre che il maritaggio fusse
arrivato a tre zitelle l’anno se ne faccia processione assieme con li
preti, è la Compagnia del Glorioso San Gioseppe sposo della prima Vergine
sino alla chiesa di Santa Maria di Seramonte con l’assistenza però
sempre dè sudetti signori provisori. Et acciò questa santa opera
mai per alcun tempo si preserischi detto signor donatore ordina e vuole che
in termine d’un anno prossimo si faccia una Pietà de rilievo da
mettersi, e murarsi sopra la facciata del muro di strada di dette case con porvi
sotto una pietra con l’Arme, e nome d’esso signor Bartolomeo è
del signor Ulietto fratelli de Furgotti fondatori di essa opera. E per il buon
governo di quella detto signor donatore si contenta, che da sudetti signori
deputati, è provisori pro tempore si possino fare quelle constituzioni
e decreti che unitamente giudicheranno necessarj et opportuni l’esecutione
de quali espressamente impone ne più, ne meno come se nella presente
sua fondatione, è donatione fussero parola in parola espresse, è
registrate e salve le cose predette detto signor donatore promette e afferma
la presente dotatione, fondatione, e donatione con tutto il contenuto nel presente
istrumento perpetuamente osservare ne mai per alcun tempo revocare, ò
farlo revocare etiam sotto pretesto di dolo di enorme, et enormissima letione
di ingratitudine, è di povertà per sopravenienza de figli e sotto
qualsivoglia pretesto causa quesito? colore? over ingegno renuntiando perciò
mediante il suo giuramento à tutte e singole leggi indulti, è
privilegj che facessero, ò disponessero à favor suo overo de donatori,
è mediante le quali potesse in qualsivoglia modo contravenire al presente
contratto all’insinuatione del quale anco per cautela maggiore espressamente
consente et ad insinuarlo è farlo registrare negl’atti d’altro
publico notaro, et a farvi interporre qualsivoglia decreto sopra di ciò
necessario et opportuno constituisce suoi procuratori li signori Ottaviano Marino,
e Jacomo Corradino dottori dell’una, è l’altra legge, è
ciascun di loro in solidum con potestà di sostituire, è con altre
clausole è cautele sopra di ciò necessarie, et opportune in ogni
meglior modo promettendo il tutto di aver sempre rato? et per l’osservanza
de tutte è singole promesse dechiarationi, et altre cose contenute nel
presente instrumento come sopra ha obligato, et obliga se stesso, è suoi
heredi successori è beni presenti, è futuri nella più ampla
forma della Reverenda Camera Apostolica con le clausole vincoli, e cautele solite
è consuete, et in qualsivoglia modo necessarie, et opportune renuntiando
anco à qualsivoglia appellatione consentendo in caso di contraventione
alla relassatione del mandato esecutivo con una sola citatione è con
toccar le scritture in mano di me publico notaro ha giurato di osservar sempre
il tutto detto di sopra in ogni meglior modo alli sacri Santi Evangeli del Signore.
Acque e mulini tra Romagnano Sesia Prato e Grignasco
Gli argomenti di cui si parla molto
e che si discuterà di più nel prossimo futuro saranno senza dubbio
le risorse idriche e l’energia. Nei prossimi decenni questi argomenti
saranno le assolute priorità in cui noi tutti dovremmo tenerne conto.
Il continuo e graduale ritirarsi dei ghiacciai accompagnato dalle sempre meno
nevicate invernali fa sì che anche noi che viviamo a ridosso dei monti
più alti d’Europa dobbiamo fare i conti con questa non tanto improvvisa
emergenza idrica. Lo stesso discorso vale per l’energia in generale, dove
le risorse naturali come il petrolio e il metano, oltre ad essere molto inquinanti,
sono prossimi al loro esaurimento. Quindi vanno ripensate altre soluzioni e
strategie che permettano di mantenere lo stesso livello di vita tecnologica
sfruttando intelligentemente le energie alternative meno inquinanti.
Quindi l’acqua come risorsa fondamentale ora, come lo fu nei secoli passati.
Da sempre.
L’acqua come indispensabile risorsa idrica e come elemento fondamentale
di creazione d’energia per far girare le ruote dei mulini, delle piste
da canapa e dei filatoi prima, e delle ruote a turbina con il passare dei secoli.
In epoca feudale i mulini oltre
a costituire una importante fonte di reddito, erano di esclusiva proprietà
del feudatario del luogo. Solo lui poteva arrogarsi il diritto di costruirli
obbligando poi i contadini a macinare in esso pagando il dovuto servizio. Molti
di questi mulini diventarono poi di proprietà privata ma di famiglie
nobili o capitoli religiosi.
Nei secoli successivi con il graduale superamento del feudalesimo i mulini furono
acquistati dai comuni. Rimasero ancora quegli obblighi per la gente comune con
severe pene contro coloro che andavano a macinare altrove, ma con la minore
aggravante che il guadagno era a vantaggio dei comuni e quindi della stessa
comunità.
Elemento necessario e indispensabile per avere il mulino era l’acqua,
ed il fiume Sesia con i suoi corsi d’acqua scendenti dalle singole valli
è sempre stato ben sfruttato per la costruzione dei mulini necessari
al fabbisogno delle comunità.
Mulini semplici originariamente e che funzionavano solo quando nel torrente
c’era sufficiente acqua che scendeva verso la Sesia. Così come
il torrente Magiaica da Ara, come la Mologna scendente dalla Traversagna, come
il torrente Roccia di Prato scendente dalle colline del Vaglio. Con il passare
del tempo per alcuni di questi mulini venne fatto il cavo di derivazione dalla
Sesia così da permettere una lavorazione costante durante il corso dell’anno.
Ancora sul finire del ‘700 erano segnalati ben 5 mulini ad Ara in quel
tempo ancora divisa da Grignasco. Un mulino a Grignasco chiamato della Giarola
con tre ruote, ed altri 4 tra Prato e Romagnano.
Non è ancora chiaro l’anno di costruzione di questi ultimi mulini
si ha però ragione di credere che un paio di essi – il mulino del
Sasso, e quello di Ceriallo, o della Resiga – siano della seconda metà
del quattrocento. Il mulino Nuovo ancora esistente a Prato dei primi anni del
1500; mentre il quarto – anch’esso ubicato sul territorio di Prato
– era certamente più antico di tutti gli altri. Quest’ultimo
venne chiamato con diversi nomi: mulino dei Tornielli, mulino De Carlis, Superiore,
oppure di Cavallirio perché gli abitanti di quel luogo erano obbligati
a macinare in quel mulino in base ad una convenzione del 1536.
Tutti dislocati nel raggio di 300 metri i quattro mulini vennero acquistati
dalla comunità di Romagnano durante i primi decenni del 1500.
Il mulino della Resiga situato all’interno dello stabilimento Botto era
originariamente a due ruote.
Poco più a monte in prossimità del primo edificio Botto, sul piano
dell’acqua c’era il mulino del Sasso chiamato così perché
in prossimità di un costone roccioso ancora esistente che faceva parte
in origine del Motto del Sasso. Tale mulino era a tre ruote e dalla parte opposta
della roggia molinara aveva la sua pista da canapa.
Più avanti verso Prato dalla parte sinistra della circonvallazione entrando
in paese c’era il terzo mulino – il più antico chiamato in
seguito di Cavallirio. Aveva anch’esso in epoca antica la pista da canapa.
Distrutto quasi completamente dalla grande alluvione del 1755 venne ancora una
volta ricostruito, ma smise di essere operante agli inizi del 1800.
Dalla parte destra della circonvallazione – poco più avanti –
il mulino Nuovo chiamato così perché fu l’ultimo costruito.
Anch’esso a tre ruote con annessa la pista da canapa.
Tutti questi mulini, seppur due di loro costruiti sul territorio pratese, erano
di proprietà della comunità romagnanese. Nella seconda metà
del 1500 la comunità di Prato avanzò la richiesta di poter acquistare
almeno uno dei due mulini per le proprie esigenze. L’intransigenza dei
romagnanesi fu ferma e ben decisa e costrinse i pratesi alla costruzione in
proprio di un nuovo mulino che fu realizzato alla confluenza del torrente Furone
con la Mologna nella zona dell’attuale centrale idroelettrica. Ma l’interesse
dei romagnanesi era troppo elevato, e così una squadra armata fece una
spedizione punitiva, ed oltre al ferimento di persone ed all’uccisione
del curato distrussero completamente il nuovo mulino.
Una delle tante suppliche dei pratesi al Senato di Milano precisa: per le grandi
insolentie che hano fatto nelle persone de particolari de Prato ferendoli, bastonandoli,
guastandole le bestie, amazandoli il curato, è tutta via minaciono di
far; vociferando ancora chel mulino non macinarà se non macina di sangue
de pratensi come si è per inteso et si deve temer per esser loro romagnanensi
pronti di mani et feri.
Così il 30 dicembre 1576 il Senato di Milano decretò il passaggio
del mulino Nuovo alla comunità di Prato con un costo d’affitto
annuo di 200 lire imperiali da pagare a Romagnano.
A Grignasco esisteva un solo mulino
ed era chiamato della Giarola ed era situato non lontano dai confini con Prato
Sesia in una località vicina all’attuale centrale elettrica della
Giarola.
Era un mulino a tre ruote e anch’esso aveva annessa la sua pista del canape.
Si conosce poco della storia di questo mulino e le prime indicazioni lo danno
dei primi anni del ‘500. Fu di proprietà privata fino alla seconda
metà del Seicento e poi divenne comunale.
I 5 mulini di Ara alimentati dal torrente Magiaiga furono invece completamente
di proprietà privata, ed anche in questo caso la documentazione storica
in possesso è molto scarsa.
Erano mulini molto piccoli ad una sola ruota e senza la pista da canapa.
Il molinaccio
Il mulino di Stefano Vinzio
Il mulino della bussola o della cassa dei defunti
Il mulino di Giuseppe Tosallo
Il mulino Francescoli
La Pista da Canapa di Prato
Ma come si è ricordato la preziosa acqua dispensatrice di energia non si limitava a far girare le ruote dei mulini ma anche quella della pista del canape
Fin dai tempi più antichi
la canapa era coltivata anche e soprattutto nei nostri paesi. Nel 1640 a Prato,
figuravano coltivati con questa coltura oltre 60 appezzamenti di terra, mentre
una statistica del 1807 riporta la produzione pratese a 500 rubbi l’anno
– oltre 40 quintali.
Com’era coltivata?
Si seminava fittamente tra marzo e aprile per facilitare lo sviluppo di steli
lunghi e sottili che potevano raggiungere e superare i tre metri d’altezza.
A metà agosto si tagliavano questi lunghi arbusti e si lasciavano ad
asciugare al sole, dopo di che si toglievano tutte le foglie e si utilizzava
solo il fusto delle pianticelle.
Si legavano in mazzi e si immergevano questi covoni in grosse buche piene d’acqua.
I covoni dovevano essere completamente immersi nell’acqua e per fare questo
si usava tenerli a fondo mettendoci sopra delle grosse pietre. Dopo due o tre
settimane si toglievano i covoni dalle buche. Operazione molto faticosa perché
il contadino doveva lavorare in condizioni disastrose immerso nell’acqua
putrida togliendo prima i grossi sassi coperti di fango. Lo scopo dell’operazione
era quello di rendere più facile il distacco della fibra di canapa dall’arbusto.
Lasciati i covoni ad asciugare giungeva il momento della successiva operazione
che consisteva nella separazione della fibra grezza dallo stelo. Questa si otteneva
spezzando l’estremità delle pianticelle dalla parte della radice
e scortecciando il fusto, badando bene affinchè le fibre rimanessero
più lunghe possibili. A questo punto la canapa era pronta per essere
messa nella Pista ove con lo schiacciamento subiva una gramolatura tale da permettere
una migliore separazione delle sostanze legnose ancora presenti. Dopo questa
operazione incominciava la lavorazione della fibra con la cardatura operata
con appositi pettini a denti metallici. Era anche questa una operazione molto
faticosa e fastidiosa per la quantità di polvere che rilasciava. Si otteneva
così la rista che a sua volta veniva filata e lavorata fino a diventare
lenzuolo, o capo di vestiario o cordame.
La pista da canapa era composta
da un grande sasso circolare scanalato internamente. Superiormente vi era una
ruota anch’essa in sasso che girando sopra in tondo permetteva lo schiacciamento
della canapa riposta lungo la scanalatura.
Il grosso sasso da macina era bucato al centro in cui trovava posto un lungo
palo in legno. Questo nella parte superiore era ancorato alla ruota di schiacciamento,
mentre nella parte inferiore – dopo aver trapassato il pavimento su cui
poggiava la pista – terminava con delle pale in legno.
Il salto dell’acqua contro tali pale permetteva di far girare la ruota
in tondo schiacciando così la canapa.
Il filatoio di seta di Prato
Ed infine l’acqua creava energia
anche per un’altra realtà produttiva molto importante nella nostra
zona già a partire dal ‘700, e questa soprattutto legata a personale
quasi completamente femminile.
La lavorazione della seta, e l’acqua anche in questo caso serviva come
fonte energetica per far girare la grande ruota del filatoio.
A Borgosesia già prima dell’Ottocento c’era un filatoio che
occupava oltre 90 persone. Nel 1806 nella relativa filanda erano occupate 173
persone quasi esclusivamente femminili.
C’era il filatoio a Prato Sesia, a Sizzano, a Ghemme e a Valduggia
L’economia del tempo passato
in queste zone si basava essenzialmente sull’agricoltura: vino, cereali
di varia specie, canapa nei secoli più antichi, patate nei secoli più
recenti. Non mancavano però altri tipi di coltivazione che seppur di
minor quantità permettevano alle famiglie di migliorare economicamente
la loro condizione sociale. Tra questi prodotti non va dimenticata la già
citata coltivazione della canapa oppure la coltivazione delle noci che nell’Ottocento
fecero diventare il borgo di Prato il maggior produttore di tutto il Cantone
di Romagnano. Ogni appezzamento di terra aveva al suo interno uno o più
alberi da noce.
Molti di questi appezzamenti però avevano – specialmente verso
i confini e i fossati – anche alberi di gelso. Questi alberi – oltre
al loro frutto chiamato morone – servivano essenzialmente come cibo per
la coltivazione del baco da seta. Una coltura antica importata dalla Cina ma
che presto si sviluppò anche nelle nostre zone. Una coltura tanto importante
che durante le rogazioni si usava portare in processione anche i semi del bigat,
ed i bozzoli più belli della produzione famigliare venivano offerti durante
le feste religiose come elemosina con il nome di galette o cocchetti.
La coltivazione del baco avveniva nelle case degli stessi contadini con la schiusa
delle uova in ambiente tiepido nel periodo della festa di S. Marco. Ai piccoli
bruchi depositati su apposite tavole venivano somministrate in continuazione
le foglie di gelso tritate.
Ad un certo momento della sua vita il bruco incomincia a salire sugli arbusti
ben ramificati e preparati a suo tempo dal contadino. Trovato il luogo ideale,
il bruco incomincia a costruire il bozzolo chiudendosi all’interno di
esso. Dopo circa otto giorni dalla sua salita sul ramo veniva il momento per
il contadino di raccogliere i bozzoli, non prima però di averli agitati
sentendo se all’interno era già avvenuta la trasformazione del
bruco in crisalide. Se si sentiva la crisalide che sbatteva contro il guscio,
il bozzolo era pronto altrimenti significava che la larva stava ancora secernendo
filo.
I bozzoli raccolti venivano immediatamente portati alla filanda dove si provvedeva
tramite il calore a soffocare la crisalide all’interno, altrimenti, trasformandosi
in farfalla bucava il bozzolo per uscire rendendolo inutilizzabile.
L’operazione era chiamata stufatura o soffocatura.
In seguito tali bozzoli erano immersi in vaschette piene d’acqua calda
chiamati fornelletti e venivano sbobinati abbinando vari fili di seta insieme,
che componevano un unico filo ritorto. L’acqua calda permetteva al filo
di staccarsi facilmente dal bozzolo.
Ogni bozzolo poteva dare un filo di seta lungo dai 350 ai 1200 metri.
Terminata la sbobinatura i rocchetti di filo passavano dalla filanda alla zona
di filatura per completare la lavorazione e trasformare il filo in tessuto.
A soli 50 metri a valle dal Mulino
Nuovo di Prato un’altra grande ruota del diametro di 6 metri affiorava
dalla roggia molinara. La ruota del filatoio di seta. Una delle poche realtà
produttive del Cantone di Romagnano nell’epoca della pre-industrializzazione
settecentesca.
Sorto nel 1750 ad opera di Giorgio Felice Maoletti in società con Carlo
Giuseppe Ghezzi il filatoio di Prato rappresentò per molti decenni un
polo produttivo di grande importanza per l’occupazione lavorativa di molte
famiglie pratesi.
La particolarità di questo stabilimento, quasi unico nel suo genere in
tutta la zona cantonale e valsesiana, (ne esisteva uno simile solo a Borgosesia),
è che era sia filanda che filatoio e quindi nello stabilimento si trasformava
il bozzolo in filo, ed il filo in tessuto.
Purtroppo una profonda crisi gestionale sommata poi alla crisi dei setifici
di Vigevano di inizio ‘800 ridimensionò la produzione facendo fermare
la parte relativa alla filatura di tessuto e mantenendo solo la filanda per
la trasformazione dei bozzoli in filo.
Nel corso dei primi decenni dell’Ottocento la proprietà passò
di mano parecchie volte, ma non si è in grado di sapere al momento quando
cessò definitivamente la produzione.
Ancora nel 1847 Goffredo Casalis nel suo Dizionario Geografico scriveva che
a Prato avvi un filatoio di seta, in cui s’impiegano 50 operai.
Anche la coltivazione del baco da seta andò gradualmente scemando con
il passare degli anni fino a concludersi nei primi anni del Novecento anche
a causa dell’esaurirsi degli alberi di gelso per vecchiaia e mai reimpiantati.